Amava raccontare Hans Mayer di avere avuto tra gli studenti dell’Università di Lipsia uno strano tipo che non parlava mai. Il suo fiuto pedagogico gli suggerì due opposte ipotesi: dev’essere un cretino o un genio. Si trattava di Uwe Johnson (1934-1984), uno dei più grandi scrittori del Novecento europeo. Il suo esordio sulla scena tedesca a soli venticinque anni fu tutt’altro che silenzioso. Il romanzo Congetture su Jakob (1959) fece scalpore e tenne a battesimo il rinnovamento della letteratura tedesca del dopoguerra. La quale abbandonava il tema delle macerie e si cimentava con la realtà attuale.

Per Johnson realtà ingrata, che significava la nazione tedesca divisa in due stati concorrenziali: uno comunista a oriente e l’altro capitalista a occidente. Nel giovane stato comunista, la Repubblica Democratica Tedesca, Johnson si trova a trascorrere l’infanzia e la prima giovinezza. Non gli pare però che questa nuova Germania abbia realizzato una rivoluzione democratica. Non lo convincono la propaganda di partito e le verità ufficiali. Perciò, invece di esaltare le magnifiche sorti del nuovo Stato secondo i canoni del realismo socialista, l’esordiente scrittore ne sottopone tutta la realtà a una fitta rete di congetture. Adombrare la possibilità del suicidio per un giovane comunista (Jakob), felice in amore e realizzato nel lavoro, equivaleva a un atto di scandaloso deviazionismo. Johnson passa a occidente, nella Repubblica Federale, dove aderisce al Gruppo ’47. Ma anche qui egli non riesce a trovare un ubi consistam. Dietro alla facciata democratica della Repubblica Federale il suo sguardo rigoroso intravede una sostanza illiberale, opulenza accompagnata da vanagloria.

Dov’è la Germania ideale per cui valga la pena di spendere la propria esistenza di scrittore? Johnson si costringe a un secondo espatrio e si trasferisce in America, dove almeno trova il punto di osservazione giusto per cimentarsi con i nodi più dolenti del destino tedesco. È un destino rievocato e commentato da chi non lo ha fatto, ma subìto: Gesine Cresspahl, impiegata di banca a New York, dove ha riparato insieme con la figlia Marie. Profuga come il suo autore dallo stato comunista tedesco, Gesine diventa l’eroina di un’imponente tetralogia: Jahrestage. Aus dem Leben von Gesine Cresspahl (1970-1983). Della quale erano apparsi in italiano presso la Feltrinelli i primi due volumi, il secondo nel 2005. Ora la casa editrice romana l’Orma ha assunto la meritevole iniziativa di completare l’opera pubblicando il terzo volume a opera degli stessi valenti traduttori dei volumi precedenti, Nicola Pasqualetti e Delia Angiolini: Uwe Johnson, I giorni e gli anni (pp. 377, euro 26,00).

Nella tetralogia sono registrati tutti i giorni che vanno dal 21 agosto 1967 al 20 agosto 1968, con l’indicazione pure dei giorni della settimana in cui cadono. Non è semplice pignoleria, ma amorevole sostegno di ogni giornata trascorsa dalla protagonista nella metropoli americana. I fatti quotidiani sono da lei evocati direttamente o con l’ausilio della «vecchia zia», come scherzosamente viene chiamato il New York Times. Mentre, insieme con l’undicenne figlia, Gesine commenta l’attualità, la sua memoria insegue un’altra traccia, quella del passato trascorso in una piccola città del Meclemburgo, Jerichow. Il nome, Johnson confessa di averlo inventato e tratto dalla Bibbia. E, al di là della individuazione geografica, importa la funzione vicaria attribuita a Jerichow. Un villaggio per tutta una regione su cui si abbatte il cataclisma della storia: il nazismo, la guerra e l’occupazione sovietica. Il romanzo è perciò costruito su un impiamto polifonico. Si alternano continuamente piccola e grande scena del mondo, la pena di vivere in una società malata e il culto dell’utopia di un’umanità diversa, i crudi fatti e il loro accorato commento.

Il terzo volume ora pubblicato va dal 20 aprile al 19 giugno 1968, arco cronologico nel quale ricadono il movimento studentesco, la primavera di Praga e l’uccisione di Robert Kennedy, per citare solo gli eventi principali. Con i quali si alterna, quale drammatico controcanto, il momento più doloroso nei ricordi di Gesine. La disastrosa guerra scatenata da Hitler arriva nel 1945 a un epilogo paradossale. A guerra perduta, come se non bastassero i milioni di vittime del conflitto, l’ottusa condotta del comando tedesco è capace di aggravare ulteriormente il bilancio dei morti. Vige l’ordine tassativo secondo cui nessun prigioniero dei campi di concentramento doveva essere trovato vivo dalle forze nemiche. Nel Lager di Neuengamme (vicino ad Amburgo) alla vigilia della capitolazione restavano ancora sotto il controllo dei tedeschi più di seimila persone. I prigionieri più deboli, già in preda al delirio da febbre, vengono fucilati e il resto trasportato su carri-merci a Lubecca. Qui, contro il volere del capitano, vengono caricati su tre malridotte navi, ferme nel porto e lasciati morire a decine al giorno. Scarseggiano il cibo, l’acqua e, per i prigionieri russi ammassati nella stiva, anche l’aria. I morti vengono ammucchiati sui ponti. Ci pensa l’aviazione britannica a liberare i superstiti bombardando e mandando a picco le tre navi. È un immane massacro e i morti sulla costiera baltica sono tanto numerosi che non è possibile seppellirli di nascosto nella sabbia. Jerichow, passata dall’occupazione britannica a quella dell’Armata Rossa, viene inondata di cadaveri. Lo spettacolo dei morti, le cui salme costituiscono un problema per le autorità, si impone universalmente nell’esistenza degli abitanti, non risparmia nemmeno i bambini. La Gesine di allora, figlia del borgomastro di Jerichow, non riesce più a mangiare in quanto assillata dalla coscienza di un dovere tanto impellente quanto indeterminato nei confronti dei morti: «Sapeva che ora doveva fare qualcosa; ma non aveva idea di cosa. Quando poi rifiutò la colazione, e anche di toccar cibo tutto il giorno, non è che questo tacitasse la sua coscienza. Si sentiva come se mangiare fosse stato tradire l’adunanza dei morti» (p.108).

Morti in guerra, morti in conseguenza della guerra, morti per l’ostinata barbarie del comando nazista: ce n’è abbastanza per condannare in eterno un regime e la sua ideologia. E invece nella patria tedesco-occidentale gli elettori sembrano avere già dimenticato gli orrori del passato. Nelle elezioni regionali del Baden-Württemberg i neonazisti conquistano il 9,8 % dei voti e 12 seggi su 127. Con ciò essi sono ormai rappresentati in sette degli undici Länder, di cui si compone la Repubblica Federale. Il New York Times, la «vecchia zia» benpensante e accomodante, in parte attribuisce tanto successo agli eccessi del movimento studentesco. Il quale ha reagito in modo violento all’attentato subìto dal suo leader Rudi Dutschke, spingendo verso l’estrema destra l’impaurito elettorato tedesco. Sennonché gli studenti non sono insorti solo a Berlino, ma un po’ dovunque in Europa. A Parigi gli studenti si scontrano con la polizia. Hanno in programma di controllare l’attività didattica delle università e di rovesciare il sistema capitalistico.

La protesta si estende fino al di là della cortina di ferro. Riuniti sotto la statua di Jan Hus, gli studenti di Praga denunciano le varie inadempienze del Partito comunista: mancano gli alloggi, i trasporti sono al collasso, scarso il potere d’acquisto della moneta, troppo bassi i salari. Siamo alla Primavera di Praga, la prima tra quelle che non potranno mantenere le promesse. Alexander Dubcek impegna tutta la sua intelligenza politica per realizzare un programma di riforme senza incappare in un intervento militare sovietico. Vola a Mosca per tranquillizzare il Politbüro del Partito: riuscirà nel suo intento? o avrà l’URSS l’arroganza di mandare ancora una volta i carri armati? Dilemma sul quale Gesine e Marie alternano le loro congetture in pieno stile johnsoniano: «L’armata Rossa è pronta a compiere il proprio dovere. No che non lo fanno. In Ungheria l’hanno fatto, 1956. E appunto stavolta vorranno evitare. Stavolta infatti sono chiamate a partecipare anche “altre” truppe socialiste» (p. 100). La Primavera di Praga si concluderà il 20 agosto 1968 con l’invasione della Cecoslovacchia a opera dell’Armata Rossa e dei «fratelli» socialisti.

Uwe Johnson non fa sconti a nessuno. La condizione di ospite non impedisce a Gesine di riconoscere in quella americana una società malata. E non si tratta solo della politica estera imperialistica (Vietnam). Tutto l’assetto sociale mostra crepe preoccupanti. Dopo l’uccisione di Robert Kennedy (6 giugno 1968), candidato alla Presidenza degli Stati Uniti, alla scolara Marie viene assegnato un tema sulla sua figura. Questo artificio consente allo scrittore di riportare in luce aspetti poco evidenziati dalla stampa. Innanzi tutto l’enorme ricchezza dei Kennedy, qui illustrata con le cifre. Poi il passato politico di Robert che, prima di diventare paladino dei diritti civili dei ‘negri’ come ministro della giustizia nel governo del fratello John, aveva lavorato nella divisione sicurezza dello stesso ministero, «dando una mano a liberare il campo dagli omosessuali» (p. 294) Aveva inoltre fatto parte della famigerata commissione per le attività antiamericane, voluta dal senatore Joe McCarthy.

Il destino di Robert si iscrive nelle saga delle maledizioni che colpiscono la famiglia Kennedy. Ma costituisce anche un anello non infrequente nella catena dei presidenti e politici prominenti americani assassinati con arma da fuoco. In un secolo si contano le uccisioni dei presidenti Lincoln (1865), Garfield (1881), McKinley (1901) e John Kennedy (1963), mentre scampano agli attentati i presidenti Theodor Roosevelt (1912), Franklin Delano Roosevelt (1933) e Truman (1950). Cadono inoltre sotto il fuoco degli attentatori il sindaco di Chicago Cernak (1933), il senatore Long (1935), i leader negri Malcolm X (1965) e Martin Luther King (1968), il quasi presidente Robert Kennedy (1968).

Sono la punta di un iceberg, le vittime apicali di un cancro intrinseco alla società americana. La storia di questa nazione sembra «un film western, col morto ammazzato garantito. Per lo più con arma da fuoco. Esiste il diritto dell’uomo americano a portare un’arma. Il giocattolo preferito di Ernst Hemingway» (p. 298). Alla lobby dei fabbricanti di armi e a quella di chi le rivende non importa se ogni anno si contano in America ventunmila omicidi per armi da fuoco. In questa socità tocca di vivere alla figlia di Gesine Cresspahl, fuggita in America per sottrarsi agli incubi del destino tedesco.