Favorita dalle condizioni climatiche, dai tanti tipi di vitigni e dalle caratteristiche dei vari territori, l’Italia può vantare una elevata qualità dei propri vini, molto difficile da raggiungere dai produttori di altri Paesi. A questo bisogna aggiungere anche la propensione dei nostri vitivinicoltori all’innovazione e, nello stesso tempo, al mantenimento delle tradizioni, aggiornandole e sperimentandole.

È il caso Giulia Arrighi, giovane imprenditrice dell’Isola d’Elba, che di recente ha ricevuto il premio Oscar Green 2020 della Coldiretti per la produzione di un vino particolare che prevede la maturazione dei grappoli appena raccolti sotto gli abissi marini. «Volevamo riprodurre il Vino degli Dei dell’antica Isola di Chio (Grecia) – racconta Arrighi – dove 2400 anni fa veniva creato questo dolce nettare che prevedeva l’immersione delle uve in mare per garantirne la conservazione. Questo vino era amato dalle più illustri personalità dell’epoca e viaggiava da Chio fino a Marsiglia (Francia) passando anche dall’Isola d’Elba come testimoniano le anfore ritrovare nel nostro mare. Da tre anni abbiamo intrapreso la sperimentazione di questa tecnica, in seguito alla curiosità nata per le ricerche condotte dallo scrittore e professore Attilio Scienza dell’Università di Milano. Lui ci propose di far tornare in vita questo antico nettare». Ma quali sono i vantaggi? «Dalle analisi di laboratorio eseguite abbiamo scoperto che il sale, oltre a essere presente sulla buccia dell’uva, entra per osmosi anche all’interno degli acini ed è questo che aiuta la conservazione del vino. Il sale è antisettico e antiossidante e questo è un bene per escludere o limitare l’uso dei solfiti».

L’azienda di Giulia Arrighi destina a questa sperimentazione circa tre quintali di uva della varietà Ansonica, uno storico vitigno dell’Isola d’Elba. «Grazie all’aiuto dei sub di Porto Azzurro poniamo le ceste di vimini fatte a mano con dentro l’uva tra i 7-10 metri di profondità del mare», spiega l’imprenditrice. «Il primo anno sono rimaste nel mare per cinque giorni, mentre dal secondo anno solo tre giorni. Una volta ripescate le ceste, si prosegue con l’appassimento dell’uva al sole sui graticci, tecnica ben consolidata nella viticoltura elbana. Terminato questo procedimento i grappoli vengono diraspati e il mosto creato viene posto con le bucce nelle anfore di terracotta di Impruneta della forma particolare e allungata come quelle ideate dagli abitanti di Chio per renderle uniche». Il vino prodotto, chiamato Nesos, non è ancora in commercio, ma è stato esaminato solo a livello scientifico e storico. «Forse da quest’anno proveremo a metterlo in vendita…».
Dall’Isola d’Elba a Oslavia (Gorizia) dove l’azienda Gravner utilizza per la vinificazione grandi anfore in terracotta. «Nel 1997 ho abbandonato tutta la tecnologia acquistata – racconta Joško Gravner – dalle vasche di acciaio fino alle barrique e ho riabbracciato gli insegnamenti di mio padre. È l’inizio della macerazione in grandi tini di legno, senza alcun controllo della temperatura, per un periodo che va da una a due settimane e un primo impiego delle anfore». Nel 2000, di ritorno da un viaggio nella zona di Kakheti, nel Caucaso, Joško decide che d’ora in poi si dedicherà solo alla vinificazione con grandi anfore in terracotta importate da quella zona (Georgia orientale). «Oggi nella mia cantina ospito 47 anfore di capacità dai 1.300 ai 2.400 litri, sono interrate, emerge dal terreno solo l’orlo. Le uve fermentano con una lunga macerazione nelle anfore e rimangono sulle bucce dai 3 ai 6 mesi. Dopo la svinatura e la torchiatura il vino ritorna ancora nelle anfore fino al settembre successivo. Dopodiché inizia l’affinamento in grandi botti di rovere per sei anni».