Lo scorso novembre Milano ha perso la sfida per ospitare la sede dell’Agenzia europea del farmaco (Ema). Più che la delusione del mancato traguardo (oggi rimesso in discussione dai ritardi organizzativi di Amsterdam), a far riflettere è stata semmai la concentrazione politica e mediatica che per mesi ha rimbalzato messaggi dal tono guerresco. Dall’Ema sembrava passare la sorte del futuro economico milanese. La sfida si è così caricata di meta-significati simbolici, geopolitici ed economici. Eppure, a ben guardare, a pieno regime l’Agenzia europea avrebbe occupato 870 persone. Qualcosa non torna nelle proporzioni della narrazione massmediatica, oppure questa vicenda svela alcuni caratteri ancora poco compresi dell’attuale trasformazione metropolitana? Meno di 900 persone avrebbero generato un indotto di circa 1,7 miliardi di euro, tramite la moltiplicazione di eventi e finanziamenti che l’agenzia avrebbe sviluppato. Tanto per dire, il bilancio consuntivo del Comune di Milano parla di 3,4 miliardi di entrate e 3,1 miliardi di spese comunali. 900 persone, lo 0.06% della popolazione milanese, avrebbero generato un ritorno economico pari alla metà del bilancio cittadino. In questi numeri trova rappresentazione una delle principali fratture della metropoli contemporanea, la contrapposizione tra utenti e residenti. Per quello 0.06% di popolazione non cittadina, aliena cioè agli interessi di lungo periodo dell’economia e della morfologia milanese, Milano avrebbe ceduto volentieri la propria sede regionale (il “Pirellone”), nonché adeguato parte dei servizi municipali alle esigenze di questa élite urbana non solo indipendente dalla città, ma addirittura dal contesto nazionale in cui si sarebbe trovata temporaneamente a vivere. Una vera e propria «classe media transnazionale che vive non una città, ma in città, o meglio fra le città» (Martinotti 2017). Il potere di questa popolazione, numericamente ristretta ma economicamente egemone, da anni destruttura e rimodella i caratteri della cittadinanza. Sempre con Martinotti, «nella concorrenza fra queste popolazioni e nelle funzioni urbane legate a queste ultime, sembra abbastanza chiaro che la componente residenziale e gli abitanti urbani tendono a trovarsi dal lato più debole». Detto altrimenti, le diverse popolazioni che abitano la città non si sommano più fra loro, ma competono e si escludono nel godimento di taluni diritti. Il risultato è che «gli enti pubblici territoriali sono scelti dai residenti, ma gli interessi economici della metropoli dipendono sempre più da popolazioni non politicamente responsabili della città». La popolazione temporanea che avrebbe occupato gli ex uffici regionali avrebbe influito sulla trasformazione economica della città senza però condividerne la responsabilità politica. Fra le diverse tipologie di city users rientra a pieno titolo anche quella del turista. Anzi: affari e turismo ricco sono sempre più destinati a convivere nella stessa figura sociale. Non è un caso che in diverse città europee, Barcellona e Berlino in primo luogo, lotte contro gentrificazione, turismo di massa e share economy siano alla fine precipitate in un’unica istanza di rifiuto della “città degli utenti”. Barcelona en Comù, la coalizione politica che governa la città catalana, deve molto della propria originalità e del proprio radicamento alla capacità di organizzare un nuovo diritto alla città in aperto conflitto con la metropoli modellata in funzione dei non residenti. Complice la crisi e la terziarizzazione dei rapporti produttivi, il modello amministrativo imprenditoriale sembrerebbe aver preso il posto di quello manageriale: città governate come aziende, votate cioè alla competizione inter-metropolitana fondata sull’attrazione dei flussi economici transnazionali. Come incide questa frattura sulla fisionomia cittadina? L’economia cittadina sarà sempre più orientata ad attrarre city users che, come ricordava Martinotti, hanno la caratteristica di essere politicamente irresponsabili. Questi utenti sono oggetto di contesa, ma questa avviene a spese dei cittadini residenti, che vedono distrarre parti sempre più cospicue del bilancio comunale al fine di intercettare questa utenza elitaria, trans-metropolitana prima ancora che inter-nazionale. La dinamica tratteggiata dalla lotta per l’Ema è allora spia di un processo più profondo, quello della competizione tra metropoli per attrarre élite urbane ma non cittadine. Impossibile arginare un fenomeno simile dalla sola prospettiva cittadina. Già destituire di fondamento la narrazione che vorrebbe l’attrazione dei flussi turistici o l’organizzazione dei mega-eventi internazionali come sinonimo di arricchimento della città e dei suoi abitanti, sarebbe molto.