Per molti la minaccia Usa di un intervento militare in Venezuela sarebbe solo un bluff. O, comunque, una via poco percorribile, considerando di quanti militari (230mila) e di quali avanzati armamenti disponga la forza armata bolivariana, quanto poche siano state le defezioni all’interno dell’esercito, su quali alleanze possa contare il governo Maduro (a cominciare da quella russa) e a quante resistenze (anche da parte dei paesi latinoamericani e della Ue) andrebbe incontro il ricorso all’uso della forza.

CHE TUTTE LE OPZIONI siano sul tavolo, come a Washington hanno detto e ripetuto più e più volte in tutte le salse, appare tuttavia qualcosa di più di una provocazione. Significativa, al riguardo, è l’intervista rilasciata alla rivista Foreign Policy dall’ammiraglio Craig Faller, capo del Comando Sud degli Stati uniti, il quale ha assicurato che l’esercito «sta valutando varie opzioni e sarà pronto per qualsiasi decisione assumerà il presidente Trump». Indicando persino una possibile data: «La crisi in Venezuela – ha spiegato confrontando la situazione del paese con quella siriana – potrebbe arrivare al livello di quest’ultima alla fine dell’anno nel caso in cui Maduro resti in piedi».

E UN ALTRO SEGNALE inquietante viene dalla rivelazione del giornalista investigativo statunitense Max Blumenthal, il quale, sul portale Grayzone, ha riferito che il 10 aprile un gruppo di esperti del Center for Strategic and International Studies ha organizzato a Washington una riunione a porte chiuse di «Valutazione sull’uso della forza militare in Venezuela», a cui hanno preso parte una quarantina di funzionari e militari degli Stati uniti e di alcuni paesi latinoamericani. Tra loro, l’ammiraglio Kurt Tidd, fino a poco tempo fa capo del Comando Sud degli Stati uniti; Roger Noriega, già ambasciatore Usa presso l’Oea (coinvolto anche lui, come l’inviato speciale Usa per il Venezuela Elliott Abrams, nello scandalo Iran-Contra); l’ambasciatore colombiano a Washington Francisco Santos e varie figure designate dall’autoproclamato presidente ad interim Juan Guaidó.

A CONFERMARLO sono stati due dei partecipanti, Sarah Baumunk del Csis, e Santiago Herdoiza dell’agenzia Hills & Company, i quali, ha riferito Blumenthal, «erano estremamente nervosi per il fatto che qualcuno della stampa sapesse dell’esistenza di questo evento». Un evento che dimostrerebbe, secondo il giornalista, come «le opzioni militari vengano considerate seriamente in questo momento, allorché tutti gli altri meccanismi messi in gioco da Trump sembrano aver fallito».

E UN’ULTERIORE MINACCIA viene dall’Ecuador, dove il presidente Lenín Moreno ha sollecitato mercoledì, contro il Venezuela, nientedimeno che l’applicazione della Dottrina Roldós – approvata nell’80 dai paesi del Gruppo Andino ma da allora rimasta solo sulla carta – in base a cui un’azione congiunta in difesa dei diritti umani non comporterebbe alcuna violazione del principio di non intervento.

A prendere sul serio la minaccia di una guerra sembra essere comunque la diplomazia russa, che giovedì, attraverso la portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, ha lanciato nuovamente l’allarme: «Il tono duro e aggressivo di Faller conferma i nostri timori: l’uso della forza da parte degli Usa in Venezuela non è un’astrazione ma una possibilità reale». Ancora più reale, tuttavia, è la minaccia da parte di Trump di «sanzioni più dure»: dopo le misure contro la Pdvsa, la compagnia mineraria Minerven, la Banca statale di sviluppo economico e sociale e decine di navi venezuelane, è arrivato il turno anche della Banca Centrale del Venezuela.