In un solo giorno Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia hanno deciso di riportare in patria i familiari dei loro diplomatici di stanza a Kiev; la Nato ha stabilito l’invio di altre armi e altri uomini in Europa dell’Est; e il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha detto esplicitamente per la prima volta di essere pronto anche ad «azioni offensive».

Tutto questo senza che la Russia muovesse un singolo elemento del complicato meccanismo politico e militare sul quale lavorano da mesi gli inviati della Casa Bianca, del Cremlino e delle principali cancellerie europee.

L’obiettivo del meccanismo dovrebbe essere impedire una guerra che avrebbe conseguenze disastrose sul piano economico, per non parlare di quello umanitario. Il problema è che nei fatti sembra oggi usato per condurre alla precisa ipotesi che si dovrebbe scongiurare: un attacco della Russia.

«He has to do something», Vladimir Putin «deve fare qualcosa», ha detto il presidente americano, Joe Biden, parlando di quel che si aspetta dalla crisi in corso.

Negli ultimi mesi la possibilità di vedere basi Nato anche al confine ucraino ha spinto la Difesa russa a muovere truppe verso il confine meridionale, e ad aprire un negoziato sull’architettura della sicurezza europea. Tradotto significa ridurre la presenza americana nell’ampia regione attorno al Mar Nero.

Il ragionamento non riguarda soltanto il processo di adesione all’Alleanza atlantica che Zelensky porta avanti, un processo su cui grava, peraltro, una cupa mischia interna, come dimostrano l’arresto del leader di opposizione Viktor Medvedchuk, l’inchiesta per tradimento a carico dell’ex presidente Petro Poroshenko e la recente campagna contro un altro politico della minoranza, Yevheniy Muraev, che per le solite e anonime fonti di intelligence potrebbe guidare un governo fantoccio per conto dei russi. Il ragionamento di Putin sulla sicurezza riguarda, oltre all’Ucraina, le basi americane in Bulgaria e Romania.

Il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, ha chiesto che siano chiuse nel vertice a Ginevra con il collega americano, Antony Blinken. La risposta è arrivata prima del previsto. L’Amministrazione Biden, secondo il New York Times, pensa di impiegare un contingente di cinquemila uomini nei paesi del Baltico. In che modo questa operazione possa rassicurare gli ucraini di fronte a un’invasione russa non è dato sapere.

Così come non è dato sapere quali siano nel concreto i piani degli Stati Uniti e dell’Unione europea per sostenere la popolazione ucraina nel caso di una guerra aperta. Biden ha parlato di «armi agli insorti», come se l’Ucraina fosse una sorta di Afghanistan di fede ortodossa, ma ha smentito la possibilità di mandare forze armate sul terreno.

L’Europa un esercito neanche lo possiede. Per i russi non sarebbe complicato muovere ora le truppe dentro le repubbliche ribelli di Donetsk e di Lugansk. Alla Duma il Partito comunista, il secondo nel paese, ha chiesto la scorsa settimana di riconoscerle ufficialmente. Se non è ancora accaduto, è per tenere aperte trattative più ampie sul caso ucraino, trattative che evidentemente nessun altro intende affrontare.

L’impressione è che per una parte dell’establishment politico occidentale il risultato migliore del confronto passi proprio attraverso una manovra militare russa in Ucraina. Questa eventualità permetterebbe alla Nato di passare in pochi mesi dalla «morte cerebrale» diagnostica dal presidente francese Macron, a una nuova stagione di primato in Europa.

La manovra, però, bisogna provocarla. Il Cremlino non ha mai smentito l’ipotesi di un intervento sulla base di «interessi legittimi». È davvero disposto a farlo? Aprire una guerra in Ucraina avrebbe costi elevati, prima di tutto sull’ordine interno.

Ma costi ne avrebbe anche la rinuncia alla tutela della sicurezza nazionale. Lo sa Putin. Lo sanno i suoi interlocutori all’estero. Per la Russia questa crisi comporta gli stessi rischi che la corsa agli armamenti ha avuto sulle sorti dell’Unione sovietica.