Non è ancora trascorso un anno dall’insediamento di Joe Biden ma negli Stati uniti c’è il senso palpabile che in questo inizio di 2022 siano in gioco non solo le sorti del suo mandato, ma della stessa democrazia americana. Il paese si affaccia con trepidazione alla stagione elettorale (le mid term per il controllo del Congresso avranno luogo a novembre) che culminerà con le presidenziali che nel 2024 dovrebbero decidere la partita ancora aperta col trumpismo.

Le elezioni del 2020 sono state vinte dal presidente in carica con uno scarto di 6 milioni di voti alle urne (e un margine ben più risicato nel collegio elettorale che è il dato decisivo). Ma il risultato è stato confutato da Trump e dalla sua campagna di mistificazione culminata nel tentato colpo di mano del 6 gennaio spalancando scenari inediti per la maggiore democrazia occidentale.

SOTTO lo stretto controllo di Trump (e con la complice ignavia dei “moderati”) il Gop si prepara ora a replicare il copione nelle prossime tornate per consolidare un’egemonia di minoranza attraverso la manipolazione del processo elettorale. La strategia prevede il persistere di una battente campagna di disinformazione per propagare la frottola delle «elezioni rubate» congiuntamente all’inibizione del voto avversario.

Le “interferenze mirate” nel processo elettorale hanno una lunga storia in America, favorite da un ordinamento intermediato, che prevede la selezione di grandi elettori in base a circoscrizioni maggioritarie distribuite su cinquanta stati autonomi. Il principale paradosso è che la massima carica nazionale viene eletta in base ad un dedalo di regolamenti locali. Ogni singolo stato ha facoltà di stabilire autonome modalità di voto, numero ed ubicazione dei seggi, accesso a voto anticipato o per posta.

Anche nelle scorse elezioni dunque, a scapito della maggioranza di 6 milioni di preferenze nel voto popolare (concentrate in California e grandi città), l’esito è dipeso da piccoli margini in una manciata di stati. Basterebbe dunque “influire” su qualche decina di migliaia di voti per cambiare il risultato. È un sistema che storicamente si presta a manipolazioni in particolare a scapito di minoranze e soggetti socialmente deboli. Restano famigerati i molti stratagemmi per limitare l’accesso al voto degli ex schiavi dopo la liberazione: imposte gabelle, tasse elettorali, interdizione per precedenti penali ed altre arcane regole per impedire che si costituissero in blocco elettorale. Quel regime è perdurato negli stati del Sud fino agli anni 60 delle scorso secolo ed al movimento per i diritti civili. La principale conquista di Martin Luther King sarà allora proprio la promulgazione del Voting Rights Act che, firmato nel 1965 da Lyndon Johnson, di fatto toglie agli stati sudisti – per manifesta malafede – l’autonomia sulle proprie regole elettorali, a tutela specificamente degli elettori afroamericani.

DA ALLORA però la radicalizzazione della destra americana – con sempre più marcate velleità nostalgiche e suprematiste – ha determinato un’erosione di quelle protezioni. E la Corte suprema blindata dai conservatori nel 2013 ha infine abrogato i controlli federali sulle elezioni. Con l’accelerazione trumpista, in molti dei 30 stati ad amministrazione repubblicana si è riaperta la corsa alla soppressione del voto. Georgia, Iowa, e Florida hanno ad esempio adottato nuove regole che decurtano il voto per posta, ampliano l’autorità di amministrazioni locali di “verificare” i risultati, diminuiscono il numero di seggi e addirittura rendono reato fornire acqua a chi, di conseguenza, sarà obbligato ad aspettare ore in fila per votare, manovre evidentemente mirate ai distretti con prevalenza di elettori democratici. Il Texas considera valido per l’identificazione degli elettori ai seggi il porto d’armi ma non le tessere studentesche. 34 leggi simili sono state adottate in 19 stati – molte altre sono ancora all’esame. I repubblicani sanno di non potere ottenere una maggioranza popolare e si affideranno a complottismi e manovre elettorali. «Stanno passando leggi stato dopo stato», ha affermato Biden. «Non per proteggere il diritto al voto ma per decurtarlo».

SOTTO LA DIREZIONE di Trump i repubblicani hanno inoltre intrapreso l’epurazione di ogni funzionario di partito che aveva osato resistere alle sue indebite pressioni per «far saltare fuori» i voti necessari per vincere. In quelle cariche decisive negli swing states sono stati sistemati fedelissimi del capo. Progressisti e la base democratica afroamericana da tempo implorano il presidente perché adotti contromisure a questo golpe strisciante, e Biden sembra ora rendersi conto dell’urgenza. Dopo aver messo in “pausa” il pacchetto conclusivo della sua riforma sociale, ha dichiarato l’allarme rosso dirottando ogni sforzo sul passaggio del decreto che ripristinerebbe una garanzia federale sul voto.

LA RIFORMA elettorale (intitolata al leader dei diritti civili John Lewis) è stata approvata dalla Camera, ma l’unico modo per farla passare in Senato è cambiare la regola che richiede una super maggioranza di 60 voti (e concede ai repubblicani un effettivo diritto di veto). Dopo lungo temporeggiamento Biden ha infine rotto gli indugi invocando la modifica della soglia di maggioranza parlando di crisi esistenziale della democrazia americana.
In un comizio in Georgia, dove nel 2020 una grande mobilitazione capitanata da Stacey Abrams aveva strappato lo stato ai repubblicani, ha dichiarato di essere «stufo di aspettare», affermando che «tutto il mondo aspetta di vedere se gli Stati uniti sapranno proteggere la propria democrazia».

L’ABROGAZIONE della super maggioranza (filibuster) richiede però i voti di tutti i 50 senatori democratici (più la vicepresidente) cui dispongono i democratici. Significa che le sorti della riforma sono in balia dei franchi tiratori – due per la precisione: i senatori Joe Manchin e Kyrtsen Sinema che hanno già affossato la legge sul clima.
Ed il tempo sta per scadere. Chuck Shumer, capo della maggioranza democratica al Senato, ha dichiarato che il pacchetto dovrà passare entro il Martin Luther King Day (17 gennaio). «È un voto che segnerà un momento cruciale per questo paese», ha twittato Biden. «Sapremo preferire la democrazia all’autocrazia?».