Non sottovalutiamo i pericoli del cinismo politico. Ovvero della così detta Realpolitik.

È trascorsa poco più di una settimana dal momento in cui è stato sfiorato lo scoppio di una guerra tra gli Stati Uniti e l’Iran. L’Iran ha una popolazione di oltre 80 milioni di abitanti, è uno dei paesi più sviluppati del sud del mondo, con un tasso di alfabetizzazione dell’87.2% della popolazione, robustamente armato. Insomma, una guerra che per dimensioni, durata ed estensione, farebbe apparire quelle più recenti delle sperimentazioni in vitro, se non si contassero in milioni le vittime soprattutto civili.

Come noto, dopo una successione di incidenti nello stretto di Hormuz, di cui restano controverse le origini, l’abbattimento di un drone statunitense ha determinato la decisione del presidente Trump di colpire tre bersagli non precisati sul territorio iraniano. Dopo pochi minuti, la decisione è stata revocata dallo stesso Trump, con la motivazione di risparmiare 150 vite di civili iraniani; a suo dire, un prezzo eccessivo per la provocazione subita dagli Stati Uniti (Washington asserisce che il drone sarebbe stato abbattuto in spazio aereo internazionale anche se resta oscuro il senso di un lancio che non fosse diretto contro territorio iraniano).

Le ragioni politiche della tensione tra i due paesi sono note. Nella fase attuale uno schieramento che, oltre agli Stati Uniti, comprende Israele e gli stati del Golfo, guidati dall’Arabia Saudita (ad eccezione del Qatar), ha diretto la propria aggressività contro l’Iran. Che viene ritenuto elemento catalizzatore del mondo sciita, prevedibilmente rafforzato dalla conquista statunitense dell’Iraq a guida sunnita, con una maggioranza della popolazione sciita, e dall’esito della sanguinosa guerra siriana. Una minaccia permanente nei confronti di Israele, e anche, forse soprattutto, incompatibile con un controllo indiscriminato dei flussi di petrolio nei confronti del resto del mondo. Ne sono derivati la denuncia unilaterale da parte di Washington del trattato che ha segnato la rinuncia di Teheran a dotarsi di armi nucleari, l’estensione di sanzioni nei suoi confronti, da applicarsi a tutti quei soggetti economici o politici che non vi aderiscono, allo scopo d’isolare commercialmente il governo khomeinista e di colpirne al cuore l’economia.

Ciò che sorprende e deve allarmare, è la natura blanda delle reazioni sia a livello governativo che mediatico in tutto l’Occidente. Francia, Germania e Regno Unito hanno espresso disapprovazione per una soluzione militare del conflitto, manifestando sollievo per la marcia indietro di Trump, mentre l’Unione europea ha raccomandato negoziati a livello diplomatico. I media hanno disquisito sulle intenzioni e le capacità intellettive dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Soltanto Jeremy Corbyn e Bernie Sanders – che ha invocato la restaurazione dei poteri esclusivi del Congresso di decidere atti di guerra – hanno lanciato un allarme proporzionato al pericolo in atto, In Italia, non si è levata nessuna voce autorevole, nemmeno a sinistra, che servisse a distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dalle dispute tra Salvini e Di Maio, dai destini del Tav e dai fasti della candidatura olimpica.

Pochi hanno creduto alla motivazione umanitaria del contrordine in extremis della Casa Bianca. È più probabile che esso sia stato motivato dal gusto di Trump per qualche futuro colpo di teatro alla Kim Il Sung o dal suo fiuto per l’indisponibilità prevalente nell’opinione pubblica americana ad iniziare altre guerre, anche vinte militarmente, che hanno avuto esiti negativi dal punto di vista degli Stati Uniti; che si trattasse di Afghanistan, Iraq, Siria o Libia.

Ciò che sembra sfuggire ai più è il limite di una politica di equilibri e di rischi più o meno calcolati che, indipendentemente dalle intenzioni e dalla qualità politica dei protagonisti, può sfuggire ad ogni controllo. Esistono dinamiche di politica interna che, in situazioni di estrema tensione, possono prender loro la mano. Ad esempio, la vulnerabilità politica del regime trumpiano e della componente guidata da Khamenei e dalle Guardie delle Rivoluzione comportano il bisogno di un nemico esterno dall’esito imprevedibile, specie in un contesto di perenne corsa agli armamenti.

Non a caso i teorici della Realpolitik evitano invariabilmente di analizzare le ragioni dello scoppio della Prima Guerra Mondiale che una catena di eventi, dall’attentato di Sarajevo in poi, ha scatenato, malgrado cancellerie riluttanti, ma claudicanti; soprattutto armate fino a dei denti. Persino Henry Kissinger, convinto ammiratore di Metternich e di Bismarck, ha segnalato recentemente come sia raro che sistemi di armamenti non vengano, prima o dopo, usati.