Ogni quattro anni il mondo intero assiste al match elettorale tra due candidati alla Casa Bianca con la stessa suspense che si prova assistendo attorno al ring ad un combattimento fra due pugili. Eppure, solo un’infima minoranza degli «spettatori» conosce le regole stravaganti che disciplinano l’elezione presidenziale: stravaganti in quanto immutate dal primo Ottocento.

LA PRIMA BIZZARRIA, almeno con gli occhi di oggi, sta nel sistema a doppio turno: non si vota direttamente per i candidati alla Casa bianca; si vota in ogni Stato per dei Grandi elettori, associati all’uno o all’altro candidato e che compongono il cosiddetto Collegio elettorale. E per rispettare lo spirito federalista della neonata nazione – per evitare cioè che i grandi Stati oscurassero i piccoli – si decise all’epoca che mini-Stati come il Delaware e il Rhode Island o grandi come la Pennsylvania avessero diritto a due senatori ciascuno.

Egualmente si decise che i Grandi elettori fossero almeno due per ogni Stato, più un numero pari ai deputati inviati da ogni Stato al Congresso (questi sì corrispondenti alla popolazione di quello Stato). Già queste regole di «almeno due per ogni Stato» oggi risultano anomale, perché gli Stati meno popolosi sono più rappresentati che il Texas o la California.
Il numero dei Grandi elettori è fissato in 538; entrerà alla Casa bianca chi se ne aggiudica almeno 270. Qui sta la seconda bizzarria: chi vince in uno Stato, fosse anche per un solo voto di scarto, si prende l’intero mazzo di Grandi elettori di quello Stato. Come in un sistema maggioritario «secco», chi ottiene il 50% più uno dei voti si aggiudica tutti i delegati dello Stato.

MA COSÌ SI SA in anticipo a chi dei due candidati andranno i voti della California (al candidato democratico), del Texas (al candidato repubblicano) e di molti altri. Di conseguenza la vera sfida si limita agli swinging States, un gruppetto di otto o nove Stati che storicamente oscillano fra uno schieramento e l’altro.
Inoltre, con questo sistema può accadere che il voto dei Grandi elettori non corrisponda al voto «popolare», l’unico a esprimere con precisione la reale volontà degli elettori. Si è già verificato nel 1876, nel 1888 e da ultimo nel 2000, quando nei collegi elettorali il «perdente» Albert Gore ottenne mezzo milione di voti in più del «vincente» Bush.
Meglio non pensare, poi, a cosa accadrebbe con un risultato a parità, 269 a 269: una serie allucinante di riconteggi nelle circoscrizioni, di ricorsi e controricorsi legali bloccherebbe per mesi il governo della superpotenza.

SI POTREBBE ARRIVARE, al limite, ad assegnare la Casa bianca a un repubblicano e la vice-presidenza a un democratico (o viceversa), dato che in caso di perfetta parità spetta alla Camera eleggere il presidente e al Senato eleggere il vice-presidente. E se, com’era fino al 2012, la Camera è controllata dai repubblicani e il senato dai democratici, ecco lo scenario da incubo.
Infine c’è una terza anomalia. In Europa generalmente il cittadino riceve il certificato elettorale a casa e non gli resta che recarsi al seggio. Negli Stati uniti, invece, per aver diritto al voto occorre iscriversi nelle liste elettorali, e all’atto dell’iscrizione occorre specificare il partito di appartenenza: o repubblicano o democratico o indipendente – alla faccia della segretezza del voto – salvo cambiar casacca all’ultimo, come stanno facendo ora molti repubblicani disgustati da Trump.

LE LISTE VENGONO poi controllate dalle commissioni statali, che cancellano i nominativi di chi è interdetto dai pubblici uffici (quasi tutti coloro che sono stati in carcere anche per piccoli reati) o presenta altre irregolarità formali: una «ripulitura» condotta in maniera disinvolta a svantaggio dei cittadini più indifesi, soprattutto ispanici e neri. E questa, più che un’anomalia, è uno scandalo.

Un europeo stenta a credere che alle presidenziali del 2000 si sia verificato in Florida un vero broglio elettorale, che finì per assegnare a Bush la Casa bianca con la compiacenza della Corte suprema statale e poi di quella federale, composte in maggioranza da giudici conservatori. Un viluppo d’interessi e di pastette fra le tre massime istituzioni della Florida.
Il governatore della Florida era Jeb Bush, fratello del candidato repubblicano, e il segretario di Stato locale era Katherine Harris. Costei era per legge incaricata delle procedure di voto, e quindi avrebbe dovuto dimostrare imparzialità. Invece presiedeva pure il comitato elettorale repubblicano, era una ricchissima evangelica e con un sorriso alla Crudelia Demon proclamava ai quattro venti (testuale): «È Dio a scegliere i nostri governanti».

DAL SETTECENTO ad oggi sono state centinaia le proposte di emendare questo bizzarro sistema elettorale. Non se ne è fatto nulla, benché i due terzi degli elettori intervistati dalla Gallup si siano detti favorevoli a farla finita col sistema vigente. Ovviamente tutto ciò non fa che rinfocolare – specialmente nei ceti bassi – lo scetticismo di chi rifiuta di registrarsi e preferisce darsi all’ironia: «Se servisse a cambiare alcunché, il voto verrebbe dichiarato illegale». Lo comprova il fatto che va a votare l’80% di chi guadagna più di 150mila dollari l’anno, mentre non va a votare il 60% dei meno abbienti.