Ieri al presidio contro la guerra nel quartiere Silverlake c’erano una cinquantina di persone che sventolavano scritte contro l’intervento in Siria davanti al traffico dell’ora di punta. La piccola manifestazione è stata indetta dalla rete progressista MoveOn, l’organizzazione che forse più di ogni altra ha contribuito alle due elezioni di Obama e che oggi articola l’opposizione all’intervento militare perorato da un presidente originalmente eletto con mandato di smobilitazione. L’opposizione alla guerra qui è ormai decisamente maggioritaria (secondo i sondaggi oltre il 63% di americani sono contrari anche a un intervento limitato). Il sentimento nazionale è riflesso dai senatori e deputati cui Obama si è rimesso per un voto di autorizzazione che ad oggi difficilmente gli concederebbero. Intanto la questione ha diviso il congresso in inedite alleanze, con obamiani di ferro quali Nancy Pelosi, Hillary Clinton e Harry Reid nel campo dei «falchi» assieme ai tradizionali nemici John McCain e John Boehner (presidente conservatore della camera).
Contrari invece si dichiarano militanti della «nuova» destra Tea Party come Ted Cruz, Marco Rubio e Rand Paul; per costoro la strategia prevalente è chiaramente l’opposizione a priori ad Obama sfruttando una buona opportunità per infliggergli una cocente sconfitta politica. Si spiega così anche l’improvviso fervore «pacifista» della vecchia guardia bushiana rappresentata da Karl Rove e Donald Rumsfeld, architetti della guerra irachena oggi apparentemente del tutto immuni al pudore nelle loro esternazioni contro l’intervento.
Alla fine, la strategia obamiana di questa ingarbugliata faccenda rischia di passare alla storia per aver consolidato il consenso alla pace in un paese guerrafondaio, o quantomeno non più abituato ai dibattiti democratici sulle spedizioni militari. L’ultimo presidente a chiedere e ottenere al congresso la formale dichiarazione di guerra prevista dalla costituzione fu Franklin Roosevelt nel 1941 (e non sarebbe stato facile convincere il parlamento isolazionista senza i fatti di Pearl Harbor). Da allora, cominciando con Truman che definì il conflitto in Corea un «azione internazionale di polizia», i presidenti Usa sono sempre riusciti ad aggirare l’obbligo costituzionale di un voto parlamentare: l’intervento in Vietnam, giustificato dalla presunta (e inesistente) aggressione nord-vietnamita a navi Usa, venne autorizzato tramite un decreto d’emergenza e la guerra non fu mai dichiarata. Anche le azioni militari intraprese da Reagan, Clinton, Bush Jr. e la campagna libica dello stesso Obama furono gestite secondo i «poteri speciali» arrogati dai presidenti in carica con motivazioni di dubbia costituzionalità. È significativo quindi che il paese abbia usato la rara opportunità per esprimere una generale opposizione alla guerra, frutto anche della legittima diffidenza appresa dalla vicenda irachena.
A Washington intanto più di Boehner o McCain pesa Putin. E le ultime 48 ore hanno gettato nel caos una vicenda già confusa. La proposta russa, con apparente assenso siriano e sponda francese, ha aperto un fuori programma diplomatico che sembra obbligare tutti a stare al gioco. Il dibattito al congresso è stato rinviato con generale sollievo degli interessati e certo anche di Obama e ci si domanda come potrà riorientare il suo discorso (avverrà stanotte, dopo la chiusura del giornale) alla luce della «diplomazia involontaria» delle ultime ore. Lo farà probabilmente rivendicando la fermezza americana come strumentale per l’eventuale soluzione diplomatica. Si tratta ormai di strappare in qualche modo la vittoria dalle fauci della sconfitta, tentando di non concedere troppo merito al redivivo rivale di Mosca e gestire alla meglio una vicenda che sullo scacchiere globale ha intavolato una partita surreale.