Confidando naturalmente negli aiuti dello Stato (agevolazioni fiscali e sussidi a fondo perduto). Tanti soldi alle imprese in cambio di una spruzzatina di verde e della solita promessa che presto ci sarà più occupazione e più ricchezza per tutti. L’esatto contrario dell’impostazione delle forze ecologiste e di sinistra, che reclamano un ruolo strategico dello Stato per cambiare alla radice la politica economica e sociale. In questa polarità si gioca, dunque, l’uso più o meno efficace dei fondi in arrivo.

Affermare un nuovo modo di produrre (e di consumare) non è facile. C’è bisogno, innanzitutto, di un cambio profondo di mentalità. La svolta green non è dietro l’angolo, ma va preparata con l’iniziativa di massa. Senza conflitto e senza partecipazione popolare, una nuova idea di sviluppo non avrebbe le gambe per camminare. Un «modello verde di sviluppo», per intenderci, è incompatibile col modello, oggi dominante, dell’«economia del ricambio», in base al quale si acquistano beni per rimpiazzare quelli in uso.

La crisi dell’auto, per esempio, che è anche crisi di sovrapproduzione, è emblematica. Il governo vara misure per incentivare la vendita di automobili, magari più ecologiche. Ma il trasporto pubblico locale, inefficiente e al collasso in molte regioni e città, è del tutto ignorato. Del Tpl, che dovrebbe essere il punto di partenza di una strategia della mobilità e di una riconversione ecologica del settore, nessuno parla. Anche l’industria farmaceutica, per fare un altro esempio, non sfugge alla perversa legge dell’economia del ricambio.

Quanti farmaci sono sostituiti da quelli nuovi, certamente più costosi, ma non sempre più efficaci? La ricerca del profitto, come l’esperienza insegna, finisce spesso col danneggiare i malati, che vengono privati delle migliori cure al costo più basso, e col riflettersi sul servizio sanitario nazionale gravandolo di maggiori costi, di cui non ci sarebbe necessità. Ancora, la maggior parte dei consumatori sarebbe propensa a riparare l’elettrodomestico non funzionante o il vetro rotto del tablet, ma è scoraggiato dai costi, che a volte superano quelli dell’acquisto online dello stesso prodotto.

Così, elettrodomestici e apparecchi elettronici diventano spazzatura senza che si sia nemmeno provato a riparare il guasto. Non è vero che i centri di assistenza stanno praticamente sparendo? E con loro anche migliaia di giovani tecnici capaci di mettere mano su prodotti ad alta tecnologia? Avvenne la stessa cosa, in termini diversi, ai tempi del miracolo economico (negli anni sessanta) quando centinaia di migliaia di artigiani chiusero bottega perché le industrie inondarono il mercato di prodotti a basso costo.

Nel contesto della crisi che stiamo attraversando, non serve, anzi è controproducente, un generico sostegno alla domanda individuale o ai singoli comparti dell’economia maggiormente in difficoltà. Il problema è di come orientiamo gli investimenti, indirizzandoli verso scelte innovative ed ecologiche. Ciò presuppone una lotta senza quartiere alla cultura dominante dell’«usa e getta» e puntare tutto sul migliore «uso» e sulla «lunga durata» delle cose. Presuppone di intervenire anche con una legge ad hoc contro la pratica illegale dell’«obsolescenza programmata» dei prodotti (la durata del loro ciclo di vita prefissata già in fabbrica), su cui ormai si fonda il business del comparto industriale.

Si esce da questa situazione spostando la ricerca e l’innovazione da obiettivi tesi ad ampliare gli spazi del consumismo esasperato e del facile profitto verso obiettivi di benessere collettivo e di lavoro qualificato. L’Italia presenta innumerevoli elementi di fragilità: il dissesto idrogeologico, il rischio sismico, l’erosione delle coste, lo stato di abbandono e di degrado di beni culturali e di beni pubblici (scuole, ospedali, strade, ponti, ferrovie, e altro), l’impatto devastante di eventi calamitosi, sempre più frequenti e imprevedibili a causa dei cambiamenti climatici.

La parola d’ordine del rilancio economico, in questa fase, dovrebbe essere manutenzione, che significa riparare ciò che si rompe o riattivare meccanismi inceppati. Manutenzione come bussola che dovrebbe guidare l’azione del governo, delle regioni e degli enti locali, seguendo il filo dei progetti indicati da Laura Pennacchi su il manifesto del 2 agosto.

Una politica della manutenzione, insomma, non solo rimetterebbe in sesto le cose, ma si ripagherebbe ampiamente evitando costosi interventi, casuali e parziali, effettuati ex post. Mettere a disposizione di questa politica una parte delle risorse in arrivo dall’Europa darebbe un impulso positivo al miglioramento della qualità dello sviluppo e della qualità della vita.