Quando i dirigenti cinesi annunciarono il progetto denominato Great Firewall lo scetticismo la fece da padrone in Occidente. Cercare di fermare o di controllare il flusso di informazioni su Internet era considerata un’operazione folle destinata a un sicuro insuccesso. Ma Pechino tutto voleva eccetto un insuccesso. E con il pragmatismo che caratterizza le decisioni del potente partito comunista cinese la gradualità la fece da padrone. Per prima cosa furono coinvolte le università e i centri di ricerca di computer science. Studenti e docenti universitari furono mobilitati per sviluppare programmi informatici che potessero bloccare le comunicazioni da e verso siti internet che veicolavano posizioni ostili al governo cinese. Il Great Firewall doveva consolidare il sistema di censura cinese, anche se i maliziosi videro nella scelta un espediente per consolidare e favorire le imprese tecnologiche made in China rispetto a quelle statunitensi. Quel che doveva risultare chiaro agli occidentali era il potere di controllo e di veto dello Stato sulle comunicazioni dentro e fuori la Rete.

Sono passati poco più di quindici anni da quando la «fabbrica del mondo» ha rivendicato la propria sovranità digitale, con lo scopo tuttavia di rendere progetto realizzabile il grande sogno di costruzione della società della conoscenza, basata su intelligenza artificiale, tecnologie d’avanguardia, biotecnologie e su un ambizioso progetto di autosufficienza energetica basato sul solare ed energie alternative al petrolio e al carbone.

Temi affrontati più volte da Simone Pieranni su questo giornale. Quello che però appare come una ironia della storia è che i paladini della sovranità nazionale, variamente qualificata come nazionalismo economico o socialismo di mercato, siano nel frattempo diventati gli alfieri di una globalizzazione guardata ormai con sospetto dal nuovo inquilino della Casa bianca e da un numero imprecisato, e dalla dubbia credibilità, di leader politici del vecchio continente.

Così se Pechino usa ormai un lessico che solo una decina di anni fa era prerogativa dai sostenitori del libero mercato, il paese simbolo della globalizzazione neoliberista, gli Stati uniti, ha invece riscoperto la centralità della patria e della nazione contro il cosmopolitismo dei boss di Silicon Valley. Un conflitto che potrebbe essere liquidato con una scrollata di spalle se non coinvolgesse le dinamiche economiche, politiche e sociali dell’intero pianeta. Quello che si sta consumando infatti negli Stati uniti è un conflitto tra due diverse concezioni della globalizzazione. Da una parte ci sono le imprese globali della Silicon Valley che vedono le frontiere nazionali come una barriere al loro business model, incentrato su una miscela di open source, proprietà intellettuale e produzione di contenuti, sia che si tratta di informazioni, di conoscenza tecnico-scientifica o di entertainment.

Facebook, Amazon, Twitter, Google e altre imprese poco note al pubblico che nella loro esondazione dall’high-tech vogliono acquisire un ruolo centrale nella produzione di film, musica, programmi informatici sull’intelligenza artificiale, nell’industria culturale nella carta stampata. Settori, tutti, globali. Dall’altra ci sono però altrettante imprese che operano invece in ambito nazionale, che vanno da quelle tradizionali delle costruzioni, dell’energia, dell’industria automobilistica, dell’acciaio, ma anche di quel settore emergente della sicurezza nazionale. Molte nuove start-up statunitensi hanno a che fare con il monitoraggio e la raccolta di informazioni in Rete. Paradossalmente c’è una zona di confine nei Big Data dove lo Stato nazione è visto come una risorsa e un committente da coltivare con cura.

È cioè un «complesso militare-digitale» che non può che essere incardinato sullo Stato-nazione. È questo insieme di interessi economici, di imprese e di forza-lavoro che Donald Trump rappresenta attraverso un lessico decisamente populista e aggressivo nei confronti di Cina, Europa, India, America latina. Il conflitto in atto negli Stati uniti non ha però una valenza nazionale, ma è globale. In altri termini, la Cina, come altre realtà nazionali, sono espressione di modelli di capitalismo diversi da quelli incarnati da Donald Trump. Esprimono cioè una visione della globalizzazione dove lo Stato nazionale è «Stato dello sviluppo» e «Stato innovatore» in una cornice dove la sovranità nazionale è tuttavia ridefinita continuamente alla luce delle dinamiche globali dello sviluppo capitalista.

Il presidente degli Usa, così come altri leader politici europei, non lavora per deglobalizzare l’economia mondiale, ma per ripristinare la centralità del sistema interstatale. Come argomenta in maniera convincente lo storico dell’economia Richard Baldwin nel suo «La grande convergenza» (Il Mulino) la globalizzazione è infatti una tendenza immanente del capitalismo. Il frame teorico di Baldwin è certo interno alla cultura economica mainstream statunitense, ma è interessante laddove afferma che i fattori economici possono essere spacchettati e riassemblati al fine di garantire lo sviluppo delle imprese e del mercato. Così, secondo lo storico statunitense, ci sono state tre intense fasi della globalizzazione. La prima è stata favorita dalla riduzione dei costi di trasporto delle merci dai luoghi di produzione ai luoghi dove sono vendute; la seconda fase ha visto invece una riduzione dei costi delle comunicazioni che ha favorito il decentramento produttivo, ma al tempo stesso il coordinamento dei diversi frammenti del processo lavorativo.

La globalizzazione 3.0, cioè quella avviata nel nuovo millennio, vede la compressione dei costi di produzione e circolazione della conoscenza, nonché il governo dei flussi di sapere: elementi che definiscono un nuovo equilibrio tra locale e globale. Solo così si spiegano gli ingenti investimenti del governo cinese su alcuni settori strategici – intelligenza artificiale, biotecnologie, energie dolci -, l’adozione di un sistema misto della proprietà intellettuale al fine di garantire un flusso regolare di innovazione.

Inoltre, la Cina sta favorendo una «circolazione di cervelli» – studenti che completano la formazione in atenei di eccellenza statunitensi ed europei e attivazione di corsi universitari tenuti da docenti non cinesi – propedeutica allo sviluppo di un sistema della formazione universitaria competitivo a livello internazionale. Fattori non estranei alle scelte di molti atenei europei, indiani, australiani.

La «grande convergenza» descritta da Baldwin ha quindi la capacità di porre con forza il fatto che quella che caratterizza l’economia mondiale non è un ritorno al passato, ma un mutamento e una trasformazione dove gli elementi di continuità e di discontinuità si snodano lunga le faglie della divisione internazionale del lavoro, del governo del lavoro vivo, della produzione di conoscenza e sapere. È in questo contesto che il tema del «sovranismo digitale» acquisisce una valenza politica e teorica inaspettata. Gli Stati nazione rivendicano cioè l’esercizio della sovranità rispetto organismi sovranazionali nel regolare i flussi di contenuti, di informazione e di conoscenza. Difficile però immaginare forme di controllo per una realtà che non prevede frontiere e confini. La discussione recente sulla riforma del copyright nel vecchio continente testimonia semmai il fatto che, se stabilisci forme di controllo rigide, quel che viene messo in pericolo è semmai l’innovazione che ha bisogno di una libera circolazione di sapere. In questo caso, il «sovranismo digitale» diventa un ostacolo alla produzione della merce innovazione, cioè di un fattore indispensabile per prevenire forme di crisi e di stagnazione economica che il capitale non può permettere.

Ma è su proprio questo crinale che si addensano equivoci e le fosche nubi del nazionalismo, di culture politiche identitarie, del razzismo e del mito della frontiere e dello stato locale come argine al flusso di capitali, di merci e della mobilità di uomini e donne. Quel che sembra profilarsi all’orizzonte, all’interno della rivendicazione della centralità dello Stato-nazione, non è però una deglobalizzazione, bensì la ridefinizione del rapporto di potere tra Politico ed Economico, lasciando tuttavia inalterati i rapporti sociali di produzione e di potere rimangono cioè inalterati. Da questo punto di vista il progetto di nuove vie della seta è paradigmatico della globalizzazione 3.0. È stato più volte sottolineato che Pechino privilegia il soft power rispetto a politiche imperiali di dominio. Quel che è certo è che nelle vie della seta è previsto un equilibrio tra locale e globale.

Gli Stati nazionali sono cioè chiamati a garantire che l’extraterritorialità della logistica non venga messa in discussione e che il flusso delle merci non incontri difficoltà nel suo divenire. Soltanto che il protagonista politico non va cercato in qualche organismo sovrananzionale – il Fmi, la Banca mondiale, lo stesso Wto – ma nelle partnership politiche regionali che sono assemblate e riconfigurate secondo una logica funzionale del flusso di merci, capitali e conoscenza necessari.

L’impegno di Pechino nell’investimento in molti paesi europei, asiatici e africani ha certo il sapore filantropico teso a costruire consenso e non ostilità nei confronti della Cina, ma anche e soprattutto a rafforzare quelle partnership politiche fondate su un apparente rapporto alla pari tra Stati nazionali. La globalizzazione 3.0 ha dunque bisogno di una rinnovata concezione della sovranità nazionale, ma all’interno comunque di un rapporto di potere e interdipendenza subalterna del locale al globale. Più che a una deglobalizzazione strisciante, quella che si snoda attorno al pianeta è una trasformazione del capitalismo globale, dove lo spacchettamento dei fattori economici, per tornare al lessico di Richard Baldwin, avviene in simultanea.

Esemplificativo di questa dinamica è il settore della logistica, cioè della gestione capitalistica della circolazione delle merci, attraverso l’uso congiunto di intelligenza artificiale, precarietà lavorativa e militarizzazione dello spazio, come testimoniano la aree destinate allo smistamento delle merci, frequentemente controllati da polizia e eserciti nazionali. La normalizzazione della comunicazione online non è quindi finalizzata a un astratto sovranismo digitale, bensì a trasformare il web in una infrastruttura adeguata al coordinamento di processi produttivi globali e a una «sussunzione» reale e formale della conoscenza. È proprio la dimensione della produzione della conoscenza e la sua trasformazione in materia prima direttamente produttiva la scommessa politica dietro la tensione e il conflitto tra sovranismo e cosmopolitismo delle élite. Per quanto riguarda questo fattore, lo Stato nazione è chiamato a svolgere il ruolo di stato innovatore e imprenditore.

È l’unica variante positiva del sovranismo e del nazionalismo economico, anche se nella retorica del ritorno dello Stato nazionale poco spazio trova l’idea di uno Stato innovatore che investe molto nella ricerca, nello sviluppo e nella formazione. Anzi sono proprio gli alfieri del sovranismo a spingere l’acceleratore sulla privatizzazione della formazione e nella trasformazione delle scuole e delle università in aziende. In un recente testo apparso sull’edizione italiana de Le monde diplomatique, Serge Halimi e Pierre Rimbert, ricordando il decimo anniversario della grande crisi, scrivono che il conflitto tra populismo e liberali cosmopoliti è da ricondurre al confronto tra due modelli di liberismo. Nel primo caso – la globalizzazione 2.0 – lo Stato cede aspetti della sovranità alle imprese; nel secondo caso, lo Stato nazione indossa decisamente gli abiti del sorvegliante che i flussi di capitali, merci e conoscenza non incontrino resistenze. Il sovranismo digitale cinese costituisce quel movimento hegeliano che supera la condizione data, senza rinunciare ad essa