Dopo la decisione di Trump – e poi di Google – di bloccare le forniture a Huawei, nel bel mezzo di speculazioni e analisi sulla capacità o meno della Cina di rispondere con una produzione autoctona tanto di componentistica quanto di sistemi operativi per smartphone, lo scontro commerciale tra Washington e Pechino ha preso sempre di più la china di uno scontro hi-tech.

Già alla luce dei primi dazi americani contro tutto il comparto tecnologico cinese, era risultato evidente un dato: gli Usa sanno che le potenze del futuro saranno quelle in grado di essere leader nel campo del 5G, dell’intelligenza artificiale, della robotica.

Per questo, insieme alla necessità di risolvere i problemi della bilancia commerciale, Trump ha dato il via allo scontro sulle tariffe, poi ha provato ad affondare Huawei e in seguito il comparto della videosorveglianza cinese: per rallentare l’ascesa tecnologica cinese.

Questa circostanza è diventata via via più evidente nelle ultime settimane, durante le quali si è sollevata l’ipotesi di un «ban» da parte di Trump anche nei confronti delle aziende cinesi leader del mercato globale della videosorveglianza.

PECHINO È PARSA TRAMORTITA, in un primo momento. Nei mesi scorsi, nel bel mezzo della negoziazione con gli Usa precedente alla decisione di Trump di fare partire i nuovi dazi su 200 miliardi di prodotti cinesi, in Cina non si respirava un clima molto sereno: i primi effetti dello scontro commerciale avevano creato preoccupazioni. I dirigenti delle aziende si erano detti pronti a un nuovo “inverno” e lo stesso Xi Jinping aveva ammonito circa un periodo nel quale dover tenere tutto sotto controllo. Discorsi che ha replicato subito dopo la mossa di Trump.

C’era poi la preoccupazione che le tariffe portassero a una fuga di compagnie dalla Cina, come sta già avvenendo: alcune società giapponesi, ad esempio, hanno già trasferito la propria produzione. Non a caso in tutto questo confronto tra Cina e Usa chi risulta in grande crescita è il Sudest asiatico che da un lato raccoglie i risultati della Belt and Road cinese. Dall’altro, il tentativo di Tokyo e Washington di creare una sorta di via della seta alternativa. E infine raccoglie le aziende che fuggono dalla Cina. Una crescita di questa parte di Asia di cui sentiremo parlare sempre di più.

Dopo un primo momento di smarrimento, la Cina ha finito per cominciare a rispondere a proprio modo: nel pieno dello scontro con Usa-Huawei, Xi Jinping è andato a visitare una fabbrica che lavora le terre rare, componente fondamentale per ogni strumentazione tecnologica. Senza dire nulla Xi ha indicato agli Usa di Trump una delle armi a disposizione di Pechino per contrastare i dazi.

Ma era evidente che la Cina avrebbe risposto in modo più corposo e ufficiale. Ieri, infatti, il ministero del commercio cinese ha reso noto di stare lavorando a una «black list» di aziende americane, che potrebbero essere escluse o avere ripercussioni per quanto riguarda il mercato cinese.

NE HA DATO NOTIZIA il Global Times, costola iper nazionalista del Quotidiano del Popolo: la deterrenza della black list, si legge, «aiuterà a proteggere le aziende cinesi. Ma la Cina manterrà i suoi impegni di apertura. Il paese non farà discriminazioni contro le aziende straniere e non indebolirà gli sforzi di apertura della Cina. Piuttosto, renderà le regole più chiare».

In attesa di capire quali saranno le aziende Usa a finire nella lista nera e quali saranno le implicazioni (stop alle forniture, alla lavorazione dei proprio prodotti, o impedimento diretto a entrare nel mercato cinese) e in che modo, come accaduto con gli Usa, questa lista potrebbe complicare le cose alle stesse aziende cinesi, ieri Pechino ha anche annunciato il blocco degli acquisti promessi a Trump della soia. Pechino non dimentica che i coltivatori americani sono il nocciolo duro dell’elettorato di Trump.