Un invito a Israele a seguire con interesse la crescita incontenibile della Cina come superpotenza, non solo economica, è giunto ieri dal giornale Haaretz. «I suoi sforzi per promuovere un ordine mondiale multipolare e l’intensificarsi della competizione tra le superpotenze illustrano il ​​notevole successo del ‘Regno di Mezzo’ nel tornare al centro della scena mondiale», notava in una lunga analisi il quotidiano, esortando poi Israele «a migliorare la sua comprensione delle aspirazioni e delle politiche della Cina e valutare le sfide e le opportunità che presenta la sua crescente presenza (nella regione)». Non è ciò che si aspetta da Tel Aviv l’Amministrazione Usa uscente. Donald Trump ha fatto della lotta all’influenza globale di Pechino un suo cavallo di battaglia. E non ha mancato, pur usando i guanti di velluto con l’alleato Benyamin Netanyahu, di ammonire lo Stato ebraico dal rafforzare i rapporti con il colosso asiatico.

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Qualche giorno fa gli avvertimenti si sono fatti più espliciti. Il segretario di Stato aggiunto per il Vicino Oriente, David Schenker, si è detto molto preoccupato dalla possibilità che la Cina possa acquistare tecnologia israeliana che potrebbe usare per minacciare proprio lo Stato ebraico e gli Stati uniti. «Israele deve fare di più per monitorare gli investimenti cinesi, principalmente nell’hi-tech», ha affermato Schenker parlando a una conferenza sulla cooperazione accademica israelo-cinese. Quindi ha ricordato che la Cina rende meno efficaci le sanzioni americane contro Tehran acquistando il petrolio iraniano. Washington non ha mai digerito che una compagnia cinese, la Shanghai International Port Group, stia costruendo il nuovo porto di Haifa, il più importante di Israele. E ha messo in guardia il governo Netanyahu dal concedere a Pechino una «base di appoggio» dove attraccano la flotta di sottomarini israeliana (con capacità nucleare) e unità della Marina militare statunitense.

Inviti che sono caduti nel vuoto. E le pressioni Usa su Israele potrebbero affievolirsi con l’ingresso il mese prossimo di Joe Biden alla Casa Bianca. Il nuovo presidente difenderà gli interessi degli Usa nel confronto con i cinesi ma a differenza di Trump, si prevede, dovrebbe adottare una linea meno aggressiva e punitiva. In ogni caso Israele sa che non può sottrarsi a rapporti più stretti e più vantaggiosi con la Cina destinata a giocare un ruolo ancora più rilevante in Medio oriente senza incidere, almeno in apparenza, sugli equilibri strategici regionali. Lo dimostra la reazione insignificante che i vertici cinesi hanno dato all’Accordo di Abramo, la recente normalizzazione tra Israele e quattro paesi arabi che ha chiuso in un cassetto i diritti dei palestinesi.

Netanyahu nel 2017 ha incontrato il presidente cinese Xi Jinping e rafforzato i legami commerciali tra i due paesi senza mostrarsi interessato alla supervisione di eventuali finalità nascoste degli accordi raggiunti. L’anno dopo il vicepresidente cinese Wang Qishan è intervenuto al vertice israeliano sull’innovazione. La strategia di Pechino incoraggia maggiori investimenti pubblici e privati ​​sui mercati in Medio oriente in parziale alternativa a quelli in Europa dove le pressioni americane trovano più ascolto. E aumentano di anno in anno anche in Israele dove l’affare del nuovo porto di Haifa è ritenuto troppo ghiotto per dare ascolto alle preoccupazioni Usa.

La Shanghai International Port Group sta investendo circa tre miliardi di dollari nell’Haifa Bayport con l’obiettivo di integrarlo nel programma di Pechino «Belt and Road Initiative». Al termine dei lavori il porto avrà la capacità di 1,86 milioni di container all’anno e sarà uno dei più nuovi e avanzati del Mediterraneo grazie alla tecnologia semi-automatizzata e ai trasporti robotici. E stando alle indiscrezioni riferite dai giornali economici israeliani, altre aziende cinesi sono pronte a partecipare alla gara di appalto per il rilancio del vecchio porto di Haifa. Anche in questo caso l’Amministrazione Trump è scesa in campo per impedire che l’intera baia della città israeliana «finisca in mani cinesi». Il governo Netanyahu, spinto dalla sua corrente filo-cinese, ha scelto il silenzio.