Lo scandalo delle pressioni di Donald Trump perché il presidente ucraino Volodomyr Zelensky indagasse su Joe Biden, candidato alle primarie dem in pole-position per diventare candidato alle presidenziali, è tornato a infiammare la vita politica americana. Lo scorso fine settimana il Washington Post ha rivelato il contenuto di una telefonata del presidente americano datata 25 luglio, al suo omologo ucraino. Il colloquio, registrato dall’intelligence Usa, e i suoi retroscena sono un esempio da manuale delle pratiche di ricatti e intrighi nella vita politica del più grande paese capitalista del mondo.

NELLA TELEFONATA TRUMP chiedeva a Zelensky si mettere mano al dossier su Hunter Biden, figlio di Joe, l’allora vice di Obama, che nel 2014 era divenuto partner di uno dei magnati del gas ucraino, Mykola Zlochevsky, un modo come un altro per quest’ultimo per avere buone entrature alla Casa bianca. Zlochevsky cadde poi in disgrazia e finì sotto inchiesta e del giovane Biden si persero le tracce. Tuttavia qualcosa di non troppo chiaro era successo nel frattempo, visto che nel 2016, Biden padre volò personalmente in Ucraina minacciando il taglio di 1 miliardo di dollari in aiuti statunitensi se non fosse stata chiusa l’inchiesta che coinvolgeva il figlio. Un’inchiesta che ora Trump vorrebbe riesumare facendo strepitare i leader dell’Asinello, che vi vedrebbero un evidente tentativo di far fuori Biden. Nel gioco delle parti nessuno vuol vedere l’evidenza: la corruzione è una pratica standard nella politica americana visto che Trump, su scala ancora maggiore, attraverso l’holding di famiglia raccoglie milioni da governi stranieri attraverso la sua rete di hotel e resort in tutto il mondo.

MA LA CARTA UCRAINA nelle contesa elettorale americana del 2020 lascia sullo sfondo la questione della trattativa per arrivare alla pace in Donbass. È bizzarro come una delle ulteriori rivelazioni del Post non sia stata ripresa da quasi nessun media. Trump parlando con un collaboratore avrebbe affermato che andrebbe fatto una accordo con la Russia sulla questione dell’Ucraina orientale che contemperasse anche i suoi interessi. Se la dichiarazione fosse vera, potrebbe fornire una chiave per capire cosa sta succedendo sul piano diplomatico tra Kiev, Mosca, Parigi e Washington. E spiegherebbe il licenziamento improvviso di quel John Bolton, da sempre amico dei falchi del Pentagono, al suo rientro dalla missione a Kiev una decina di giorni fa.

Il 17 settembre si è tenuto a Minsk un incontro tra la delegazione ucraina e quella russa per proseguire nella trattativa per arrivare alla pace nel Donbass. All’uscita dell’incontro il ministro degli esteri Pavlo Klimkin ha affermato che «il suo paese è disponibile a lavorare all’implementazione della “Formula Steinmeiner”», proposta già circolata nel 2015, poi messa in ghiaccio per il veto ucraino, ma ora tirata fuori dai russi e dal super attivo Macron. La formula prevede che si tengano elezioni a Lugansk e Donetsk sotto controllo Osce mentre sono ancora sotto la giurisdizione delle repubbliche popolari a cui seguirebbe poi la ratifica alla Rada dell’autonomia delle due regioni e l’eliminazione parziale delle sanzioni alla Russia.

PERÒ PER UNA RIUNIONE del Formato Normandia a ottobre che dia il “la” al piano si attende il disco verde americano dopo l’incontro tra Zelensky e Trump che si terrà a New York domani, dove elezioni Usa e Donbass si incrocerebbero di nuovo. Ma difficilmente Zelensky farà a Trump qualche promessa. Se il suo staff è «zeppo di filo-democratici» come accusa Rudolph Giuliani, vorrà prima vedere come andrà a finire il 4 novembre 2020. Senza dimenticare gli attuali grandi nemici del presidente Usa, quei cinesi che stanno bussando da tempo alla porta di Kiev, pronti a fare importanti investimenti.