«Non so se (Trump) sia una cosa buona per l’America, ma è dannatamente buono per la Cbs». La frase, pronunciata il febbraio scorso, dal presidente del network americano Les Monvees, a una conferenza su media e tecnologia organizzata dalla banca d’investimento Morgan Stanley, è diventata istantaneamente storica.

E, nove mesi dopo, il giorno del voto, continua a riflettere l’entusiastico cinismo con cui l’establishment mediatico ha accolto e alimentato l’allucinante parabola trumpiana in direzione della Casa bianca. Il che rende ancora più nauseante l’atteggiamento di superiorità morale che giornalisti e commentatori Tv hanno adottato nelle ultime fasi di questa maratona elettorale, spesso corsa nel fango.

Non importa, chi sarà il prossimo presidente Usa, tra i sicuri vincitori dell’elezione c’è senz’altro Cnn, risalita nei rating da un declino di anni, grazie a un coverage elettorale letteralmente ipnotizzato da Trump. Cosa di cui non ci si doveva stupire, dato che il presidente di Cnn, Jeff Zucker, aveva già avuto modo di verificare il potenziale «spettacolare» del miliardario, avendo lui stesso, un tempo alle redini di Nbc, varato il reality The Apprentice a cui Trump deve la sua enorme fama fuori dalle cronache dei tabloid di New York. In primavera, aveva fatto notizia la rivolta della redazione di Cnn contro Zucker di fronte all’assunzione dell’ex direttore della campagna Trump Corey Lewandowski. È stata una rivolta finita nel nulla: Lewandowski è rimasto a far propaganda trumpista tra gli opinionisti del «network più affidabile delle news» e anche (a ieri) tra i consiglieri più fidati di Trump. Per non apparire di parte, Zucker aveva reclutato tra i suoi esperti anche Donna Brazile, provvisoriamente alla direzione del partito democratico dopo la dipartita di Debbie Wasserman Schultz. Salvo poi dirsi «inorridito» quando, una decina di giorni fa, Brazile è stata costretta a dimettersi da Cnn per aver passato alla campagna Clinton le domande di un dibattito delle primarie – come se si trattasse di un esame di terza media.

Conforta che, mentre i canali all news si facevano trascinare nell’universo parallelo della Trumpland, una volta capito che con «The Donald» non c’era troppo da ridere, la carta stampata ha dato prove di giornalismo importanti – il pezzo del New York Times sulla dichiarazione dei redditi di Trump, o sui fallimenti immobiliari, quelli del Washington Post sulle truffe della Trump University e le loscherie della Trump Foundation. Purtroppo, tra le decine di milioni di americani che hanno votato Trump alle primarie, sono pochissimi quelli che leggono il Times e il Post, preferendo attingere direttamente all’organo di comunicazione più importante del loro candidato, il suo Twitter feed personale, un megafono dal potenziale così autodistruttivo che i suoi consiglieri gliene hanno proibito l’uso da una settimana a questa parte. Gettandolo -pare- in uno stato di sconforto e confusione -come un Sansone senza capelli.

Rispetto all’uso dei new media, sono scese parecchio le cifre investite in uno degli strumenti più tradizionali delle campagne elettorali, gli spot Tv. Nel 2012, Obama e Romney, insieme ai loro Super pack, avevano speso, rispettivamente, le cifre record di 500 e 600 milioni di dollari. Dieci giorni fa, Hillary Clinton aveva toccato solo i 360 milioni; Trump -che ha mandato in onda il primo spot nazionale solo il 19 agosto e pensa che siano inutili- 147.

Dal punto di vista dello spettacolo di qualità, l’elezione ci ha regalato un’altra grande stagione di Saturday Night Live, con il magnifico Donald di Alec Baldwin eguagliato dalla geniale Hillary di Kate McKinnon e dalle sporadiche apparizioni di Larry David nei panni di Bernie Sanders. E se mercoledì l’America potrebbe svegliarsi con il primo presidente donna della sua storia, la prima conduttrice donna di uno show di tarda serata, Samantha Bee (su Tbs), per piglio politico, affilatezza e stamina, è stata una rivelazione totale, degna del suo maestro John Stewart, che ci manca moltissimo.

Ma la vittoria femminista più soddisfacente dell’anno mediatico/elettorale è anche quella avvenuta nel luogo più implausibile: tra le fauci del Fox News Network, la mostruosa macchina murdochiana a cui si deve, se non la creazione del personaggio Trump, quella della sua retorica. Da quando, il giugno scorso, il demiurgo di Fnn, Roger Ailes, ha dovuto dimettersi demolito dalle molte accuse di molestia sessuale, aggiuntesi a quelle di una giornalista a cui non aveva rinnovato il contratto, è chiaro che, alla Fox, il canale più sfegatatamente trumpista, è in corso una rivolta.

La comanda una delle star della rete, Megyn Kelly, bionda palestrata che dietro al volto immobilizzato dal Botox, nasconde l’istinto di un killer e l’unico umorismo dell’intero palinsesto di Fox News. A inizio campagna, Kelly si era accapigliata con Trump. La settimana scorsa ha zittito Newt Gingrich suggerendogli di «farsi curare il suo problema d’ira» dopo che lui l’aveva accusata di essere morbosamente affascinata dal sesso. Era stata lei che, durante la diretta della notte elettorale del 2012, si era alzata dalla scrivania ed era andata da Karl Rove per dirgli che era finita -Obama aveva vinto: «Karl, non ti tornano i numeri o non lo ammetti perché sei repubblicano?». Nel 2016, Kelly ha già dato al pubblico un altro tipo di reality check: i tempi cambiano persino alla Fox.