Si sa che il ’68 musicale inglese inizia ben prima, almeno a mettere il paletto simbolico del ’65 dei Beatles di Revolver. Che fa esplodere la forma canzone, pur lasciandola ben viva, e aggiungendo parecchie spezie. E dunque l’Oriente, provato o immaginato che fosse, il Mediterraneo del bouzouki greco (o turco: antica diatriba) che entra nel folk inglese una ventina d’anni prima del nostrano e sublime Crêuza de mä di De André, 1984. E poi il serialismo, la musica concreta, l’elettronica e via citando, in un ventaglio di tentativi e colpi azzeccati che va a lambire o a vellicare quasi ogni avanguardia del secondo dopoguerra.
E nel paese delle stelle e strisce? Quasi lo stesso, in pratica, nei reami colorati e ben vendibili della popular music, ma con una fondamentale differenza: il ’68 prodromico del rock «progressivo» inglese negli States tutto riguarda, o quasi, ma non certe forme che siamo abituati ad associare al rock progressivo, ad esempio tutti i percorsi di avvicinamento alla musica classica e antica che molti definiscono «rock sinfonico».
Il ’68 musicale degli Usa, è il compimento di un percorso di vero «allargamento dell’area di coscienza», e l’inizio di molte diramazioni laterali, per il rock, ma non un reame attraversato dai medesimi fremiti, che dire, del Re Cremisi in Inghilterra. Ci sarà un tardo rock progressivo Usa, ma con diversi anni di sfasamento, e per molti versi derivativo da quello inglese e continentale.
PARADOSSO STORICO
Singolare paradosso storico: la generazione inglese sul blues poco conosciuto negli Usa, legittima patria, da lì mosse i passi verso altre forme, la contemporanea generazione Usa il blues riscoperto lo fece esplodere in pura psichedelia, in primordiale world music, in amara disillusione rock. Questa sì in anticipo sui tempi anche inglesi e europei. Perché il ’68 degli States è l’anno che segue la Summer of Love di San Francisco, quando un popolo intero di giovani fece della capitale californiana il rifugio possibile per chiunque voleva, con Timothy Leary, «accendersi, sintonizzarsi, uscire dalle maglie del sistema».
Il Festival di Monterey segnò un culmine, poi l’implosione hippy. E molti segni che cominciarono a indicare la fine del sogno iniziato con gli scontri del ’64 a Berkeley, quelli del movimento per la libertà di parola in un paese che cominciava ad avvitarsi sulla guerra delocalizzata e proporre come alternativa di vita possibile solo la versione potenziata del presente: un turbo consumismo.
This Is the End, salmodiava un chiaroveggente Jim Morrison. Iniziamo il viaggio. Magari prendendo le mosse dai songwriter nordamericani, uno degli snodi centrali per definire i contorni della rivolta e di buona parte della new left bianca, colta, antimilitarista. Singolare ma comprensibile un’assenza discografica sessantottesca, per i due pesi massimi, a posteriori, dello scriver nuove canzoni: silenzio da Bob Dylan e da Leonard Cohen.
RITORNI
Il primo in realtà è in un momento di mercuriale creatività, e si prepara a un ennesimo ritorno con capriola, una delle sue mille. Ha già alle spalle otto dischi diversi e epocali, che hanno impresso un marchio a fuoco nella storia della popular music, e quando le cronache torneranno a parlare di lui, sarà per un’incredibile svolta country, quella di Nashville Skyline, a fianco anche di Johnny Cash, perfettamente logica ex post. Il secondo, approdato alla musica quasi per caso, e per meriti essenzialmente letterari e poetici, dopo uno svettante e tardivo esordio sta covando nel ’68 l’introverso Songs from a Room, un disco che stabilirà le coordinate della sua «presenza assenza» poetica durata decenni, tra ritorni e dileguamenti, sino allo straziato addio di You Want It Darker, 2016. S’è citato Johnny Cash: l’uomo in nero della country music meno accomodante che sia mai esistita nel ’68 piazza addirittura un quartetto di album, ma nel cuore oscuro dei rocker resterà il fascino sinistro di At Folsom Prison.
Cash di fronte ai detenuti, con le sue storie di disagio e torsioni esistenziali senza riscatto distillate in canzoni crude e perfette, che trovano un pubblico evidentemente empatico. The Man in Black dal ’68, appunto, tanto per smentire la favoletta degli anni colorati e felici a oltranza. È un ‘inquietudine che serpeggia ovunque, negli States, anche nelle forme di una liberazione del corpo che sconta ancora molti tabù nevrotici: prova ne sia Il laureato, il film di Mike Nichols la cui colonna sonora, curata da Simon & Garfunkel (e da Dave Grusin, per le parti strumentali) sbanca le classifiche. C’è la celestiale favola pop di Mrs. Robinson, ci sono tanti brani splendidi dagli ultimi due lavori del duo, attivo dal ’64, peraltro, si noti, lo stesso anno della rivolta di Berkeley. Da lì a poco cominceranno i problemi, per il duo, e le inevitabili separazioni con riunioni a effetto, ma intanto il «suono del silenzio» scorre in parallelo a quello del rumore motivato degli slogan contro la guerra nel Vietnam, il vero «sea of troubles», mare di guai in cui s’è infilata l’America.
FILI DIRETTI
Quattro almeno i debutti di songwriter decisivi nell’anno della rivolta, gente che lascerà un segno profondo sui decenni a venire. Partiamo dai canadesi, che con la California sognante e acida al contempo hanno stretti rapporti, un filo diretto che scavalca le migliaia di miglia. Neil Young nel ’68 fa uscire il primo disco, e la stoffa del coyote che da essere dolcissimo e tonitruante al contempo c’è già tutta, in quel disco senza titolo che contiene almeno tre capi d’opera: Last Trip to Tulsa, The Old Laughing Lady e The Loner. Ed è un primo colpo anche per la raffinata Joni Mitchell, che in Song to a Seagull, realizzato con l’aiuto dell’amico David Crosby, eminenza del suono acustico e elettrico californiano, mostra al mondo che si possono scrivere bei brani anche utilizzando qualcosa di più corposo e impegnativo che le solite progressioni di tre – accordi – tre. È iniziato un viaggio che la porterà a lambire inusitate sponde folk jazz, tanti anni dopo. Un altro canadese dell’Ontario come Neil Young, nel ’68 è in piena maturità espressiva: si chiama Gordon Lightfoot, e dalle nostre parti non avrà mai nulla in più che un seguito di culto. Quell’anno fa uscire due dischi, Did She Mention My Name e Back here on Earth, che meriterebbero un riascolto, col senno di poi. Un altro nome di rilievo l’abbiamo visto quest’anno sul palco di Sanremo, con l’aria un po’ dimessa, il basco calcato sulla pelata e qualche acciacco di troppo, per fortuna non sulla voce, fascinosa come sempre. Si parla di James Taylor. L’anima dolce della California proprio nel ’68, quando le chiome erano fluenti, fa uscire il suo primo disco, peraltro prima produzione ufficiale, per la cronaca, per la neonata etichetta dei Beatles, la Apple Records con il simbolo della mela sbocconcellata che innescherà la famosa polemica con la Apple dei computer.
ETERODOSSO
James Taylor è un esordio sorprendentemente maturo e raffinato, c’è giù tutto il cantautore che verrà, in epitome. Debutta anche l’eterodosso Van Dyke Park, autore e arrangiatore capace di rivoltare la pop music come un guanto, svelandone l’ordito radicato nel blues, nella country music, nel bluegrass, nella canzone di Broadway con Song Cycle, un disco che sfida il tempo come sfidano il tempo i lavori del genio malato dei Beach Boys, Brian Wilson, che a Park deve parecchio. Il 15 giugno del ’68 esce anche More Hits from Tin Can Alley, quarto parto di un’altra anima gentile come Taylor, Eric Andersen. Una specie di Dylan in minore capace di scrivere grandi canzoni ma senza la grinta per imporle al mondo, speziate di honky tonk, di blues, di folk. All’organo hammond c’è la stella rock del periodo, per quanto riguarda le sonorità ereditate dai trii jazz contemporanei: Al Kooper, che proprio nel ’68 farà uscire la scalpitante Super Session in compagnia di Stephen Stills e Mike Bloomfield, un percorso erratico e dilatato tra classici del rock, blues e del rhythm and blues benedetto da quel quid di magico che non si può proprio riprodurre.
NOTE PERTURBANTI
Restando nel campo della canzone d’autore, citazione anche per Joan Baez, che nel ’68 esce con Baptism, strano e incerto concept album dedicato alla poesia, e con Any Day now, formidabile doppio disco in omaggio al suo ex amore, Bob Dylan: tutti i brani sono del bardo di Duluth, nessuno è meno che perfetto. Un’altra signora delle note folk rock, Buffy St. Marie, indiana Cree, nel ’68 è già al quinto disco, con I’m Gonna Be a Country Girl again: classe stellare, ma in Italia la ricorderemo soprattutto per il colpo di classe piazzato un paio d’anni dopo, con Soldier Blue, dolente tema scritto per il film sulla strage di Sand Creek di Ralph Nelson. Un colpo maestrale arriva da Tim Buckley con il suo terzo disco, Happy Sad: brani estesi, perturbanti, infiltrati di grande jazz da una voce maestosa. Ultima citazione per Tape from California, il disco del ’68 del cantautore socialista americano Phil Ochs: duro e diretto come un uppercut, come sempre. Ma, per dirla con Dylan, i tempi «stavano cambiando». E non in meglio.
Nessuno meglio del genio baffuto di Baltimora incarna la spirito del ’68, anche se, come sempre, i prodromi del suo operare disincantato e imprevedibile si colgono già molti anni prima. Sta di fatto che nel ’68 Frank Zappa fa uscire ben tre dischi, e sono tre colpi da un Maestro. Innanzitutto We’re only in It for the Money (ci stiamo solo per i soldi!), acido riferimento iconografico ai Beatles di Sgt. Pepper e un titolo come «Qual è la parte più brutta del tuo corpo?!» (risposta: il cervello). Poi c’è Lumpy Gravy, due suite sconvolgenti, una per facciata, che frullano assieme il rock, Varèse e Stravinky, i cartoni animati. E infine Cruisin’ with Ruben & The Jets, impeccabile pastiche di doo-wop, un genere vocale che Zappa molto amava e ben conosceva. Dal canto suo Jimi Hendrix con Electric Ladyland mette l’asticella del suo black rock con gli Experience dove quasi nessuno arriverà, poi. Il titolo allude al suo nuovo studio, uno strumento in più che gli permette di frullare assieme psichedelia e blues, funk e aperture su musiche che devono ancora arrivare. Se Hendrix e Zappa vanno in avanti, con frenesia creativa bulimica, qualcuno va indietro nel ’68, gettando però inconsapevolmente semi nel futuro: ad esempio la Band in Music from Big Pink, primo disco, scritto nella fattoria dove Dylan smaltisce le magagne del suo incidente motociclistico. Classic rock al primo colpo, un volo radente sulle radici della popular music americana che avrà bel seguito. Anche oggi. Dylan regala loro tre canzoni, loro ci mettono un capolavoro come The Weight.
AVANTI, INDIETRO
Anche i Byrds vanno avanti guardando indietro, nel ’68: dopo le strane aperture di Notorious Byrds Brothers, con Sweetheart of the Rodeo spiazzano per bene il pubblico del loro scintillante jingle jangle rock, spolverandolo di country music. Lì per lì è incomprensibile, e invece sta nascendo il country rock. Sono agli sgoccioli, invece, gli amici e rivali Buffalo Springfield: Last time around, l’ultima volta che li vedi in giro, in pratica, è il significativo titolo del loro terzo e ultimo disco, del ’68. Non certo il migliore. Ma Stephen Stills e Neil Young partiranno da lì per nuove e consistenti avventure californiane, sino ai fasti scintillanti del supergruppo Crosby, Stills, Nash & Young. Mille volte scisso in sottomultipli che non diminuiscono la carica creativa complessiva.
STRASCICHI LIBERTARI
S’è già detto: il collasso della Summer of Love californiana spalanca un prematuro senso di disincanto, per il Movement americano. Ma ognuno la vede a modo suo. E non è detto che certi ottimistici strascichi libertari non siano stati importanti e altrettanto decisivi. Ma, su questa ambivalenza, si considerino ad esempio il valore opposto che prende la parola sun, «sole », in due dischi capitali del ’68: per i Grateful Dead di Anthem of the Sun, l’inno del sole è l’inizio di una esplorazione a tappe forzate dei limiti della percezione, lo scompaginamento psichedelico delle certezze in una superiore forma di coesione collettiva concertistica. Per i Doors di Waiting for the Sun la luce abbagliante non c’è proprio, è un «aspettare il sole» che comporta anche partecipare alla sinistra «festa della lucertola», basata su visioni di Morrison tutt’altro che rassicuranti: in epitome, sul disco, nel brandello Not to Touch the Earth, poi c’è l’urlo blues ubriaco e strozzato di Five to One, con l’invito a «ritrovarsi assieme, almeno per un’ultima volta». È forse la stessa grana della voce che deflagra nei Cheap Thrills di Janis Joplin con Big Brother & The Holding Company. La Signora del blues bianco è diventata una rockstar, ma avere l’imperiosità di Bessie Smith e l’amarezza di essere stata una brutta ragazza di provincia che è sbocciata in stella da palcoscenico a Frisco non le porterà fortuna.
E livida è anche l’aura che emana dall’album White Light/White Heat, l’ultima collaborazione dei Velvet Underground con John Cale: ma questa è la sponda Est, tutta un’altra storia rispetto alla calda California, dove peraltro incidono nel ’68 il primo disco i magmatici Quicksilver Messenger Service con John Cipollina, guitar hero dimenticato, dove i Jefferson Airplane tengono ancora in piedi il loro aeroplano libertario spargendo il messaggio di Crown of Creation, che peraltro ospita la magnifica Triad di David Crosby, prova generale per una fortunata collaborazione a venire con il pool di menti più fresche e sballate d’America.
IN DOTE
Il ’68 americano porta in dote anche due dischi per i Vanilla Fudge, all’epoca amatissimi anche in Italia: The Beat Goes on è psichedelia sperimentale pura tra voci, loop e pastiche sonori, Renaissance lima parecchie asprezze, ma mantiene quel suono turgido e saturo che fanno esplodere in pieno invece i coevi Iron Butterfly di In a Gadda da Vida, un disco elegante e pesantissimo, che influenzerà non poco la scena hard a venire. Al momento le posizioni più dure però le tengono i Blue Cheer di Outsideinside, e gli Steppenwolf del primo disco, quello con Born to be Wild destinata a belle fortune cinematografiche con Easy Rider. E poi c’è tutto uno sfavillio di psichedelia maggiore e minore che, forse per l’ultima volta, irradia di colorati raggi cosmici i più diversi pentagrammi mentali di chi sta vivendo in diretta il sogno agli sgoccioli di un altro mondo possibile. Oltre a tutti quelli già citati, un tour de force di uscite sessantottine che include, tra gli altri, Moby Grape, United States of America, 13th Floor Elevators, Strawberry Alarm Clock, Spirit, Beacon Street Union, Chocolate Watchband, H.P. Lovecraft, Kaleidoscope, Mad River, la Steve Miller Band degli esordi, Seeds, Silver Apples. Poi, il prisma dei colori si chiuderà, su un mondo, ancora una volta, in bianco e nero.