Esiste uno spazio filmico dove lasciar confluire semiotica del cinema, arte, studi di genere e b-movies? Sì e l’artefice è l’austriaca Ursula Mayer, artista e filmmaker capace di muoversi fra le coordinate delle arti visive per creare spazi caleidoscopici dove la molteplicità delle influenze trova conforto e i confini, artistici e umani, si dissolvono. Autrice di numerose installazioni e cortometraggi girati in 16mm «Amo molto girare in pellicola, dice, il processo chimico, il sentire che ha bisogno di luce per prendere vita. Il cinema contemporaneo, ’composto’ da analogico e digitale, mi offre anche uno stimolo in più: a Hollywood, per esempio, girano ancora in 35mm ma allo stesso tempo usano il green screen. Viviamo, anche su questo aspetto, una rottura completa delle convenzioni e delle regole».
QUEER
Il lavoro della Mayer, sorta di impollinazione incrociata di ogni pensiero che respira, scompone politicamente i binari del gender, della sessualità e della razza: «Spesso usano la parola queer per definire parte del mio lavoro ma per me queer non significa unicamente orientamento sessuale ma si tratta piuttosto di un’estensione del desiderio al di là del gioco dialettico fra maschio e femmina, oggetto e soggetto, schermo e spettatore».
Ursula Mayer è stata poco fa a Roma per presentare, in anteprima italiana, il suo ultimo lavoro Atom Spirit, visibile, fino al 17 marzo, alla galleria Monitor di Roma. Tra riflessioni gender e post-colonialiste, Atom Spirit si muove fra splendide riprese (quasi) documentaristiche, realizzate a Trinidad & Tobago, e macchinari degni di un film di Jack Arnold. «La fantascienza mi interessa da sempre. L’idea della mutazione, di forgiare corpi alieni ma, allo stesso tempo, così simili a noi. Per questo ho scelto di lavorare ancora con Valentijn de Hingh, attrice e modella transgender, che è quasi una creatura cyborg» Ma lo sci-fi non è l’unico referente cinematografico visto che, in lavori precedenti come Medea e Cinesexual, l’artista austriaca spaziava da Pier Paolo Pasolini a Michael Snow: «Con Medea ho voluto omaggiare Pasolini e il suo film perché credo sia stato il primo a criticare l’avvento della globalizzazione moderna. Pasolini voleva rappresentare la lotta fra il mondo capitalistico arcaico e moderno ma mi affascinava anche l’utilizzo di un testo antico come base per un film in costume, un ritratto di donna, un’investigazione antropologica e l’utilizzo di un’icona contemporanea come Maria Callas.
CINESEXUAL
La sua interpretazione, di Pasolini, è senza tempo proprio come il mito stesso». Cinesexual invece ha la stessa struttura di Two Sides to Every Story di Michael Snow ma non è un remake. Nell’installazione di Snow, dove si vedono entrambi i lati dello schermo, vi è l’impossibilità di catturare lo stesso istante e il pubblico diventa così spettatore e performer nello stesso momento: «Snow però si sedeva sulla sedia e dava istruzioni alla performer mentre io ho scelto di restare invisibile e di utilizzare due corpi, quella di Valentin e JD Sampson, protagonsita di un mio precedente lavoro, Gonda, che era una sorta di ciné-roman».
COCCYX
Valentin sarà protagonista anche del primo lungometraggio che la Mayer sta preparando, una riflessione sulle possibili memorie dei nostri antenati che vengono trasmesse dal nostro DNA: «Si chiama Coccyx, come l’osso che abbiamo, ultima testimonianza della coda che caratterizzava i nostri antenati. Il film re-immagina l’evoluzione, dai nostri avi fino a una versione post-umana di noi stessi. Ho voluto partire dal Manifesto cyborg di Donna Haraway, dalla sua visione del cyborg come un incrocio fra capitalismo, tecnoscienze e cyberspazio che si intersecano con i fattori sociali, politici ed economici che hanno rimodellato la soggettività del XX secolo, per arrivare a una mia personale riflessione sul gender e le identità post-umane di oggi»