Molte armi automatiche, quasi tante quanti i cittadini maschi, migliaia di soldati americani, canadesi, tedeschi, francesi delle missioni di «peacekeeping» e un flusso incessante di aiuti internazionali allo sviluppo – «a casa loro» – per le ultime quattro decadi non hanno fatto del Mali né un paese più sicuro né più prospero.

Tutto il contrario, il Paese che oggi va al voto, a distanza di cinque anni dall’avvio dell’intervento militare franco-africano, risulta immiserito, con una corruzione ancor più dilagante, con meno spazi di democrazia, in testa alle classifiche dei luoghi più pericolosi al mondo, con sempre meno infrastrutture e servizi e tutto un proliferare di gruppi armati, come testimonia l’ultimo rapporto dell’Institute for Security Studies . «Il Mali oggi è il crocevia dell’instabilità regionale e il terreno privilegiato per le potenze occidentali», scrive l’Iss.

Nella meravigliosa città-oasi di Timbuktù, dove ancora negli anni ’90 i turisti sfidavano caldo e disagi per ammirare le bizzarre case di sabbia dipinte come facce truccate con i motivi geometrici dogon o per ascoltare i virtuosismi delle percussioni nel Festival au Désert o infine per ammirare gli antichissimi manoscritti, in parte distrutti durante la rivolta tuareg del 2012, la situazione è disperante. Le strade sono per lo più vuote e solo pochi giorni fa i commercianti arabi hanno inscenato una minacciosa protesta, bruciando copertoni e sparando in aria. Chiedevano, in piena campagna elettorale, più sicurezza nel Nord del Paese, dove bande di predoni assaltano i camion dei rifornimenti di merci. Di turisti, naturalmente, neanche il tremulo profilo di una «fata morgana».

I ricercatori dell’Iss analizzando il mosaico di scissioni, alleanze e rivendicazioni dei vari gruppi armati sostengono che proprio la cattiva cooperazione allo sviluppo, la trasformazione della mission dei caschi blu Minusma sempre più tarata verso la securizzazione delle frontiere per il contenimento dei flussi migratori diretti in Libia e in Italia, e i processi di pacificazione male impostati da attori esterni come la Francia e l’Europa, contribuiscono a frammentare la società, favoriscono un regime sempre più autoritario, fanno proliferare le bande militari che tentato così di accreditarsi per partecipare, con le comunità e i clan che rappresentano, alla spartizione dei fondi e alimentano nel frattempo i traffici di armi e droga. Soltanto i gruppi armati, infatti, possono sedere ai vari tavoli dei negoziati di pace. Mentre, alla ricerca di interlocutori rappresentativi, i «mediatori» occidentali, negli anni, prima hanno escluso e poi trattato anche con organizzazioni definite «terroriste», come il braccio armato del Fronte di liberazione del Macina nel Centro del Paese, che ora dovrebbero garantire, dietro una qualche contropartita, «la sicurezza» delle votazioni nel 70% del Paese che le autorità centrali non controllano.

C’è da considerare che – come scrive il centro studi della Heinrich Böll Foundation di Berlino – circa due terzi del budget dello Stato maliano è tenuto in piedi dai fondi dell’Ue, «e va a rimpinguare le tasche dell’élite francofona di Bamako», la capitale, che «ha ereditato il ruolo dei colonizzatori». Il resto del Paese – cioè il Centro intorno alla città di Mopti e il Nord di Gao e Timbuktù – è sostanzialmente abbandonato e si autorganizza attraverso legami familiari, etnici e religiosi. Spesso i comandanti delle bande sono ex generali, ex poliziotti. E c’è persino una milizia, il Gruppo di autodifesa tuareg (Gatia) i cui combattenti sono stati istruiti dall’Ue.

Boubacar Keita, il presidente uscente, che resta favorito anche in queste elezioni, secondo il centro studi di relazioni internazionali olandese Clingendael, non è una soluzione ma il problema. In sella dal 1979 è malvisto dalla popolazione più giovane come simbolo delle vecchie pratiche di corruzione, nepotismo e sottobosco politico. Non a caso il movimento con a capo il rapper Ras Bath – occhiali da vista e cappello alla Bob Marley (nella foto) – che è la novità di queste elezioni, appoggia il leader dell’opposizione Soumaila Cissé.

«Ci siamo stufati di dividerci in base a ciò che dice nostra madre o il nostro vicino, su base etnica o religiosa – ha detto Ras Bath alla vigilia del voto – vogliamo appoggiare candidati che abbiano una visione morale, qualità intellettuali e diano prospettive a tutto il Paese». La sua prima rivendicazione è la diffusione della lingua ufficiale e un sistema scolastico e universitario di buon livello.