Molto raramente comprendiamo la grandezza di specifici eventi mentre sono in corso. Succede più di frequente che solo dopo qualche anno guardiamo indietro e pensiamo «quello è stato il momento decisivo che ha cambiato il corso della storia».

Due esempi: nel 1978, durante la terza sessione plenaria dell’undicesimo comitato centrale del PCC, probabilmente solo pochi osservatori esterni colsero immediatamente l’importanza dell’evento. Oggi, 30 anni dopo, è facile guardare indietro e individuare in quell’assise l’inizio delle riforme e aperture in Cina. Per pura coincidenza (o forse no), quasi esattamente nello stesso momento, ottobre 1978, e dall’altra parte del mondo, piazza del Vaticano a Roma, il nuovo papa Giovanni Paolo II celebrava la propria messa d’insediamento. Il protocollo vaticano stabiliva che il Papa dovesse restare seduto sul suo trono, mentre i cardinali in processione gli si avvicinavano, si inginocchiavano, gli baciavano l’anello e quindi proseguivano. Quando fu la volta del cardinale polacco Wyszyński, il papa, rompendo la tradizione, si alzò, sorrise e abbracciò con affetto il suo connazionale. Pochi, forse nessuno, compresero che quella fu la prima «spallata» all’impero sovietico; dieci anni più tardi, uno dopo l’altro, tutti i Paesi dell’Europa orientale ruppero pacificamente gli ormeggi e l’Unione Sovietica si dissolse.

Torniamo col pensiero al marzo del 2012: la conferenza stampa tenuta dal premier dimissionario Wen Jiabao al termine delle «due sessioni» – Assemblea Nazionale del Popolo e Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese – può ben rientrare in questa categoria di eventi, cioè fra quelli che fanno la storia. Solo nel giro di alcuni anni saremo in grado di coglierne l’importanza.

Durante la sessione, Wen Jiabao ha affrontato molti dei problemi della Cina di oggi. Da italiano, da osservatore straniero, credo che la sua esposizione sia stata lucida e che al pubblico sia apparso evidente che il messaggio fosse sincero. Qua e là, ho perfino pensato di sentire in lui qualche accenno di voce tremante per via dell’emozione. Ha detto che, anche se molte persone hanno apprezzato il suo lavoro degli l’ultimi dieci anni, altri – una minoranza – non si sono trovati d’accordo con il suo operato. Ha detto di andarsene con molti rimpianti e una parte di lavoro incompiuto.

Un capo di Stato non deve essere rattristato per questo motivo, dato che molti grandi leader, quando entrano in carica, lanciano programmi ambiziosi ma, a volte, la realtà delle cose si mette di mezzo tra le buone intenzioni e la loro realizzazione. Nel complesso, credo che il mandato di Wen come premier abbia avuto molto successo popolare; la gente di tutta la Cina ha grande rispetto per lui. Se devo ricordare un’immagine simbolo penso a lui ritto in piedi a Beichuan, Sichuan, dopo il devastante terremoto del 2008 che ha fatto circa 70.000 vittime . Io da quelle parti ci sono stato diverse volte negli ultimi tre anni. Quello che il governo cinese ha fatto per dare sostegno alle persone colpite dal disastro è assolutamente impressionante e il resto del mondo (dal Friuli a Gibellina, passando per l’Irpinia e L’Aquila) dovrebbe trarne insegnamento.

Ricordo anche il coinvolgimento del premier Wen nelle trattative sul global warming: nel corso di un vertice sul cambiamento climatico ha citato uno dei principali slogan del movimento go-green, che è: «la Terra non è ciò che abbiamo ereditato dai nostri antenati, ma è qualcosa che prendiamo a prestito dalle generazioni future», una frase estremamente potente che mette in evidenza come le nostre azioni avranno inevitabili conseguenze su chi verrà dopo di noi.

Tuttavia, come lui stesso ha detto, c’è ancora molto da fare per la Cina e molti problemi restano irrisolti. Tra i tanti, c’è un argomento che, umilmente, vorrei sottoporre alla vostra attenzione. Un problema che, a prima vista, potrebbe non apparire tra i più seri, ma che avrà un grande impatto sul popolo cinese e sul futuro del Paese. Durante quella famosa conferenza stampa, il premier Wen ha espresso le sue preoccupazioni sul fatto che gli errori della Rivoluzione culturale si possano ripetere di nuovo, se non si fa nulla per impedirlo. Io temo invece che una nuova Rivoluzione culturale sia già iniziata – da tempo – e che questo avrà effetti duraturi sulla Cina, anche più duraturi di quelli della rivoluzione di 40 anni fa. Il nome di questa nuova Rivoluzione culturale è «urbanizzazione selvaggia».

Da un lato, il grande processo di urbanizzazione che ha portato milioni di persone dalle campagne alle città, ha contribuito a incrementare la loro ricchezza personale. Un grande successo. Ma c’è anche un costo.

Chiunque abbia viaggiato in Europa, a partire, per esempio da Londra, per poi passare a Parigi, Amsterdam, Copenhagen, Stoccolma, fino a Praga, Vienna, Venezia, Firenze, Roma, Barcellona e anche per le meno sviluppate città dell’Europa meridionale come Siviglia, Palermo ed i più piccoli villaggi di Francia, Svizzera (la lista può andare avanti per sempre), è probabile ritenga che le città cinesi, anche se sono moderne e funzionali, non siano particolarmente belle. Sono impressionanti in quanto a chilometri di autostrade urbane, altezza degli edifici e altre infrastrutture; ma alto e moderno non sono sempre sinonimo di bellezza.

A causa della necessità di svilupparsi rapidamente, molte città in Cina sono assolutamente simili tra loro, senz’anima: si può camminare su una via pedonale a Changsha o Nanchang senza notare alcuna differenza particolare. La maggior parte delle città non hanno alcuna vestigia del loro passato glorioso; vecchi edifici storici e abitazioni sono stati distrutti per fare spazio a centri commerciali e a edilizia residenziale. Durante una mia visita ufficiale, i funzionari del governo locale sottolineavano orgogliosamente quante migliaia di anni di storia avesse la loro città; ma naturalmente, ad eccezione di una canoa conservata all’interno di un museo, tutto intorno a noi non aveva più di 20 anni. Se fossi stato io quel funzionario, mi sarei vergognato – altro che orgoglio – perché una così lunga storia è semplicemente svanita.

Le città cinesi non sono costruite pensando alla gente. Autostrade e tangenziali che attraversano le città sono forse una bella vista se siete su un aereo che sorvola la città, ma non vanno d’accordo con le persone che vivono a terra. Fare una passeggiata lungo Chang An Jie non è il modo migliore di trascorrere un pomeriggio a Pechino. I progettisti dei nuovi quartieri urbani sembrano innamorati di strade a 6 o 8 corsie, lungo le quali sono stati eretti i grattacieli; la non applicazione delle regole di circolazione fa sì che la vita dei pedoni sia continuamente messa a rischio in nome del «progresso» o del «regresso», a seconda del punto di vista.

Per cambiare le abitudini delle persone, se potessi, chiuderei al traffico almeno i quattro anelli interni di Pechino – città che sta rapidamente perdendo il proprio fascino e appeal da capitale della Cina. Qualcuno dirà che le tangenziali e le grandi arterie migliorano la mobilità. Al contrario, credo che questa «buona mobilità» sia in realtà l’indizio di una mancanza di pianificazione urbana: il bisogno di mobilità deriva dal fatto che posto di lavoro e abitazione delle persone sono lontani l’uno dall’altra. Questo crea enormi inefficienze di tutti i tipi, considerando anche l’energia, l’inquinamento, il traffico. Costruire strade più larghe non implica una migliore mobilità, significa solo più automobili: c’è spesso traffico lungo le larghe autostrade urbane Pechino, ma mai negli hutong (gli stretti vicoli della vecchia Pechino, o di quel poco che resta di essa).

L’urbanizzazione è stata utilizzata di recente a pretesto per produrre crescita del PIL e favorire la migrazione dalle campagne alle città al ritmo di più di 10 milioni di persone l’anno. In alcuni casi questo ha effettivamente dato molti risultati positivi, ma sappiamo anche che la quota di reddito delle persone fisiche in rapporto al PIL è costantemente in calo a partire dai primi anni ’90, il che implica che la fetta più grossa della crescita economica è finita nelle tasche delle imprese , non dei cittadini comuni (un errore che noto spesso fare tra i commentatori economici è quello di associare il PIL pro capite con il reddito pro capite del singolo cittadino: due concetti molto diversi l’uno dall’altro).

Inoltre, i governi locali possono facilmente raggiungere i loro obiettivi di crescita del PIL prendendo semplicemente a prestito denaro dalle banche e utilizzando i fondi per la costruzione di infrastrutture, case, cinema, centri commerciali. Anche costruire al centro di una piazza un cubo di cemento perfettamente inutile contribuisce ad una crescita dell’economia locale. Nessuno dovrebbe essere sorpreso dall’esplosione del debito delle amministrazioni locali.

In Europa siamo riusciti a preservare i centri storici, anche a fronte di due guerre mondiali che hanno gettato il continente nel caos. Le città europee si sono espanse, sia in verticale sia in orizzontale, verso la periferia dei centri urbani, preservando in tal modo i vecchi centri storici. Pasolini, che si disperava a vedere la periferia di Roma, sorriderebbe adesso a vedere cosa è successo in Cina. È ancora più interessante sottolineare che le città storiche europee hanno un mix di architetture e di stili che è in gran parte il risultato di secoli di invasioni straniere, ognuna delle quali ha portato una specifica cultura. Noi in Europa ci siamo impegnati per conservare questo patrimonio, anche se ha avuto origine «da stranieri»; di fatto abbiamo a cuore questo mix e ne siamo orgogliosi. Anche in tempo di guerra, c’è sempre stata una sorta di rispetto per il patrimonio storico di altre nazioni e si dice che gli americani abbiano deciso di non far cadere la bomba atomica su Kyoto, in Giappone, proprio a causa del gran numero di edifici storici e templi che c’erano lì. I talebani, invece, hanno sparato missili contro le loro stesse statue.

«Sì, ma i cinesi sono troppi» è l’obiezione comune agli argomenti di cui sopra. Tuttavia, credo che la Cina avrebbe potuto raggiungere lo stesso progresso senza appiattire la propria storia: il mantenimento di un paio di chilometri quadrati nel centro di ogni città non influenzerebbe in maniera significativa le opportunità di ricchezza per la gente comune – avrebbe tuttavia un impatto sulle casse dei governi e degli sviluppatori immobiliari locali, in particolare perché stiamo parlando di aree di particolare pregio all’interno della città. Ma qui abbiamo a che fare con la questione di quali interessi vengano prima: il futuro della gente comune o degli sviluppatori immobiliari?

Giusto per essere chiari «il mantenimento di un paio di chilometri quadrati» non significa costruire parchi giochi simil-Disneyland come Qianmen o Lijiang – luoghi dove ormai non vive più quasi nessun abitante originario, dove non esiste una comunità e che francamente quasi quasi non valgono il viaggio per andare a visitarli. Non c’è da stupirsi che i cinesi benestanti preferiscano andare in Europa per vedere la storia e la cultura.

L’urbanizzazione favorisce corruzione, abusi, sgomberi illegali e ad altri problemi. Monitorare la sua legalità si sta rivelando impossibile. Quindi, sarebbe forse meglio arrestare del tutto qualsiasi nuovo progetto immobiliare. Io suggerirei che per i prossimi 12 mesi, non venga più costruito un solo nuovo edificio in tutta la Cina! Zero! – Fatta eccezione per le scuole e gli ospedali. Non ci sarebbero più corruzione locale, debito delle amministrazioni, nessun bisogno di acciaio, di cemento. Si potrebbe invece utilizzare il denaro per migliorare le condizioni di vecchie case già esistenti, incoraggiando la gente a viverci, invece di trasformarle in negozi di souvenir tutti uguali tra loro. Questo ritarderebbe la crescita economica, il PIL? Sì, ma i cinesi hanno aspettato 5000 anni per spostarsi dalle campagne verso le città, possono quindi ben aspettare ancora qualche mese, no?

Ovviamente il mio suggerimento suona non-ortodosso e poco pratico, ma potrebbe servire come schema mentale per affrontare il problema nel suo insieme. Molto danno è già stato fatto, ma qualcosa si può ancora salvare. Ecco dunque cosa farei nel corso dei prossimi 12 mesi.

L’ex premier Wen Jiabao è un uomo di cultura e un appassionato di storia dell’impero romano; ho appreso che ha letto le Confessioni di sant’Agostino, e sicuramente sa quanto sia facile uccidere la cultura … 5000 anni di storia e di patrimonio culturale possono essere spazzati via in pochi anni, proprio come stava già accadendo negli anni ’60 e ’70. Ora sta verificandosi di nuovo. Paradossalmente, 40 anni fa ci fu almeno una qualche razionalità ideologica (che si sia d’accordo o no) .. la nuova Rivoluzione Culturale di oggi sembra invece essere guidata solo dal denaro. Wen, che adesso ha ceduto la premiership del paese al nuovo primo ministro Li Keqiang, ed essendo, quindi, più libero da giochi di potere politici, potrebbe permettersi di dedicarsi con amore e passione al tentativo di preservare la cultura Cinese, cercando di «spingere» per un processo di urbanizzazione più lento, più attento a tali problematiche.

In futuro, gli storici non rammenteranno se la crescita del PIL durante i prossimi anni sia stata al di sopra o al di sotto dell’8 per cento, ma si ricorderanno di quei giorni in cui la cultura scomparve definitivamente dalla Cina.

«Noi diamo forma ai nostri edifici, poi loro danno forma a noi», disse Churchill. Io dico: «La cultura non è ciò che abbiamo ereditato dai nostri antenati, bensì qualcosa che prendiamo in prestito dalle generazioni future». La Cina deve già molto al futuro.

(Questa è una versione tradotta e in gran parte ampliata e adattata di un commento originale pubblicato sulla rivista Caixin nel marzo 2012)