Se la fama di John Updike dipende soprattutto dalla tetralogia di romanzi, usciti tra il 1960 e il 1990, che hanno per protagonista Harry «Coniglio» Angstrom, non è solo perché nel suo personaggio si stringe l’homo americanus per eccellenza, il Wasp alle prese con insoddisfazioni famigliari, frustrazioni lavorative e inquietudini esistenziali, ma anche perché le quattro «stagioni» della vita del protagonista costituiscono una cronaca fedele, acuta e irriverente della seconda metà del secolo americano: dai «Tranquilized Fifties» che fanno da sfondo a Corri, Coniglio agli anni Ottanta del conclusivo Riposa, Coniglio, dove alla disgregazione dell’Unione Sovietica corrisponde il declino fisico del protagonista. Una ulteriore spinta alla popolarità Updike se la guadagnò con il romanzo-scandalo Coppie, che nel 1968 lo catapultò sulla copertina della rivista Time quale cantore della «società adultera», con un anno di anticipo rispetto all’altrettanto sconveniente Lamento di Portnoy del quasi coetaneo Philip Roth.

Prefigurò la fama del graphic novel
Per certi versi, la reinvenzione narrativa dell’America messa in atto da Updike – estesa in anni più recenti al periodo post-11 settembre in cui è ambientato Terrorista – ha finito per oscurare gli altri esiti, ugualmente importanti, di una produzione letteraria tanto sterminata quanto eterogenea: ai ventuno romanzi e alle quindici raccolte di racconti si affiancano infatti, nell’arco di oltre cinquant’anni di carriera, sette volumi di poesie e altrettanti di nonfiction, cinque libri per bambini, un’opera teatrale e un memoir. «Ti chiamano romanziere anche se hai scritto un milione di altre cose», si lamentava l’autore nel 1970, manifestando insoddisfazione per un’etichetta che già allora riteneva limitante. Il volume appena pubblicato da Sur, Armoniose bugie Saggi 1959-2007 (a cura di Giulio D’Antona, traduzione di Tommaso Pincio, pp. 450, € 20,00) contribuisce a rendere conto della figura eclettica di Updike quale scrittore «totale», presentando per la prima volta al lettore italiano una esaustiva raccolta di saggi dedicati a «questa attività assurda e alquanto egoista chiamata ‘scrittura’», che l’autore statunitense scandaglia in ogni sua forma e sfaccettatura – dalla narrativa alla critica letteraria, dal giornalismo allo sketch biografico e persino al fumetto.

Una attitudine pittorica
Da bambino, infatti, la massima aspirazione di Updike era disegnare per la Walt Disney e, più tardi, diventare vignettista per un magazine letterario; nel saggio «Perché scrivere?» egli stesso riconosce che la sua scrittura tende a essere «pittorica, e non soltanto perché rincorre una precisione di tipo visivo, ma anche – dice – per via del modo in cui i miei libri sono concepiti, ovvero come oggetti nello spazio». Non per caso, in una conferenza sul «Futuro del romanzo» tenuta nel 1969 e raccolta in questo volume, aveva previsto con sorprendente lungimiranza l’avvento del graphic novel, ipotizzando una generazione di artisti «dal duplice talento», visuale e letterario, in grado di creare «un capolavoro in forma di romanzo a fumetti».

In un altro saggio Updike rivela come, al momento di mettere insieme una raccolta in prosa o poesia, provi lo stesso piacere che avvertiva da bambino quando disegnava «un assortimento di oggetti – fiori, animali, stelle, tostapane, sedie, creature delle strisce a fumetti, fantasmi, nasi» per poi collegarli tra loro con delle linee «affinché diventassero tutti frutti di una stessa pianta, un albero assurdo».

Dall’albero della scrittura Updike si è nutrito per tutta la vita: dopo la laurea a Harvard si iscrisse alla Ruskin School of Drawing and Fine Art, ma nel 1955 fu assunto dal New Yorker come giornalista, e proprio tra le pagine della prestigiosa rivista apparvero i suoi primi racconti, avviandolo a quella che sarebbe stata una più che brillante carriera letteraria. Anche quando veste i panni del critico, Updike lo fa con la competenza e l’accuratezza dello «studente perfetto da dieci e lode» (il soprannome con cui Vonnegut si riferisce a lui nella corrispondenza privata) – doti che gli hanno valso nel 1984 il National Book Critics Circle Award per la critica letteraria. Non esita a occuparsi di giganti come Shakespeare, Kafka e Joyce, mentre in ambito statunitense si muove con la stessa disinvoltura tra i classici dell’Ottocento – Thoreau, Hawthorne, Melville – e i modernisti – Anderson, Hemingway, Fitzgerald, Eliot –, con incursioni anche tra le pagine di autori cronologicamente più vicini a lui come Nabokov, Carver, Roth e DeLillo, fino a Erica Jong e Jonathan Safran Foer; né si arresta di fronte ai confini nazionali, avventurandosi in squisite recensioni di scrittori europei (Calvino, Green) e sudamericani (da Garcia Márquez a Bioy Casares).

A tratti la sua passione per l’esaustività rischia di trasformarsi in pedanteria, e alcune recensioni esibiscono forse qualche lungaggine di troppo, ma ogni saggio è rischiarato da almeno una frase perfetta, che coglie l’essenza dello scrittore o del libro trattato con la potenza di una rivelazione quasi epifanica: ecco allora che «La metamorfosi» di Kafka esiste «soltanto là dove il linguaggio si incrocia con la foschia di immagini di cui è piena la mente umana»; Alice Munro diventa «una filatrice di destini implacabile, la cui voce autoriale irrompe nei suoi racconti come quella di un Dio che non sopporta più di restare in silenzio», mentre Salinger – tra gli autori preferiti da Updike – è «il cantore ideale di un’America in cui a gran parte di noi sembra essere rimasto poco da fare, a parte avere pensieri e sentimenti».

Per nostro godimento, anche nelle recensioni lo scrittore non rinuncia allo stile provocatorio e al gusto per l’allusione salace che caratterizzano la sua narrativa migliore, e la sua verve non si ferma nemmeno davanti allo Hawthorne della Lettera scarlatta; inserito nella lista dei «Cinque grandi romanzi sull’amore» compilata da Updike per una guida agli autori più rappresentativi, il capolavoro della letteratura americana che gli ha ispirato una trilogia di romanzi è recensito come un film da seconda serata: «Tra i pionieri puritani di Boston, un promettente reverendo si impegola con una protofemminista dai capelli neri e suo marito, uomo dai contorni stregoneschi e più anziano di lei».

Minacciato dai propri libri
È la stessa ironia che lo scrittore non esita a rivolgere verso di sé quando confessa di sentirsi minacciato dai suoi propri libri: «hanno scacciato tutti gli altri dalla stanza, e ne stanno invadendo un’altra». Eppure, dopo aver affermato che «la loro mole in espansione minaccia di separarmi dal senso di tutto ciò», rivela con garbata noncuranza che, all’approssimarsi dei sessantacinque anni, è sopraggiunta in lui la «smania terribile di scrivere un altro libro». Frasi come queste confermano che Updike dà il meglio di sé quando parla delle proprie ossessioni con divertito distacco, affermando ad esempio tra il serio e il faceto che scrivere un romanzo «è come il sesso, o è facile o è impossibile». Confessa, inoltre, e un po’ paradossalmente, di tenere di più alle varie fasi di realizzazione del libro – «il tempo passato a lamentarmi per il carattere, la composizione, la testatina, la sovraccoperta, la sinossi sulla bandella, la stoffa della copertina» – che all’atto della scrittura in sé.

In un divertente saggio del 1968 riporta gli esiti catastrofici dei suoi incontri con gli scrittori più amati – incontri inevitabilmente destinati al fallimento: «Il lettore si presenta equipaggiato di impressioni vivide, fresche ed esterne su opere che lo scrittore rammenta stancamente come un’intenzione indistinta, una distesa di dubbi e fatica, un groviglio di ricordi e invenzioni, un’infornata di recensioni prive di senso e un sospiro di delusione da parte dell’editore».

Involontaria dimostrazione del divario tra l’uomo e lo scrittore, i saggi su Cheever, che Updike ha sempre considerato un amico e un punto di riferimento importante, cominciano con tre elogi del suo «lirismo straordinario» e con il ricordo nostalgico del periodo trascorso insieme a Mosca – giorni che «acquistarono la spensieratezza di un aprile a Parigi»; ma poi, nel quarto pezzo, Updike, con la nonchalance che gli è tipica, esordisce dichiarando la propria sorpresa nel ritrovarsi citato nelle lettere postume di Cheever quale «persona parecchio arrogante»; l’autore delle Cronache della famiglia Wapshot aveva rivelato a un corrispondente di essere «disposto a sacrifici e disagi considerevoli per evitare la sua compagnia», e confessa di avergliene «fatte di tutti i colori, salvo avvelenargli il punch alla frutta».

Senza scomporsi, anzi facendo sfoggio di un’invidiabile e olimpica sicurezza di sé, Updike commenta: «Per coloro che desiderano unirsi agli angeli anche lo scherno angelico è musica. E non è certo colpa dei defunti se vengono pubblicate le loro lettere private».