Andare in montagna proprio quando nevica sembra un’usanza legata alla modernità: solo alpinisti e sciatori, con l’arrivo dell’inverno, preparano zaini e attrezzatura per trasferirsi a quote più elevate e fredde. Senza il progresso tecnologico che ha portato energia elettrica, riscaldamento e skilift anche in zone impervie, aspettare l’inverno per salire in vetta sembra un atto di puro masochismo. Invece, una scoperta di un team di paleontologi guidato dal tedesco Bruno Glaser rivela che durante l’ultima glaciazione un gruppo di umani etiopi aveva deciso di stabilirsi a tremilacinquecento metri di quota, appena sotto un ghiacciaio. Per capirci: si parla di circa quarantamila anni fa, in piena età della pietra. Molto prima dell’invenzione del gore-tex.

LA RICERCA È PUBBLICATA sull’ultimo numero della rivista scientifica statunitense Science, una delle più autorevoli. Il sito di scavo da cui è scaturita la scoperta è situato in Etiopia, nelle montagne di Bale, una catena montuosa che arriva a 4377 metri. Dopo aver battuto in lungo e in largo la zona a piedi e a dorso di mulo, i ricercatori hanno scavato nella Fincha Habera, una sorta di tettoia rocciosa adatta a far da riparo a un gruppo di umani. I resti che hanno trovato rivelano che la zona è stata ripetutamente abitata nel periodo compreso tra 47 mila e 31 mila anni fa, quindi anche durante l’ultima glaciazione che nella regione ha raggiunto il suo picco circa 45 mila anni fa. Soprattutto in quel periodo, vivere a 3500 metri non doveva essere facile: clima arido, temperature rigide, scarsità di ossigeno e la radiazione solare (più intensa che in pianura e fortemente cancerogena) rendono la vita difficile anche nella nostra epoca.

Invece, l’Homo sapiens dimostra di essere riuscito ad adattarsi con i semplici mezzi di sopravvivenza dei cacciatori-raccoglitori del pleistocene. Le ossa, le punte e i coproliti (feci fossilizzate) ritrovate dai paleontologi permettono di avere numerose informazioni sullo stile di vita e sulle risorse a loro disposizione.

Intanto, bastava salire a 4200 metri – quota che quasi tutti noi tocchiamo solo in aereo – per trovare filoni di ossidiana, la pietra con cui costruire punte e strumenti da taglio. E poi, abitare vicino a un ghiacciaio presenta un vantaggio: quando il ghiaccio si scioglie, c’è acqua in abbondanza. Rimane il problema del pranzo. Per vivere a quell’altitudine servono parecchie proteine. Nessun problema, la regione pullulava già allora di ratti-talpa, roditori da un chilo l’uno. Come diceva Fantozzi a proposito dei pesci-ratto, «possono piacere o non piacere», e anche allora qualcuno doveva avere gusti più variegati. Nei resti dei barbecue preistorici, infatti, compare anche qualche osso di bovino e di volpe. E persino un frammento di guscio di uovo di struzzo, probabilmente importato dalle pianure sottostanti. Segno che forse la Fincha Habera non ospitava un insediamento stabile, ma fungeva da residenza stagionale per lunghi soggiorni per i gruppi umani in migrazione.

RIMANE IL MISTERO su come l’Homo sapiens, una specie sviluppata nelle pianure calde dell’Africa, sia riuscita ad adattarsi per rimanere a lungo in condizioni climatiche così estreme. Insediamenti permanenti in quota suggerirebbero una vera e propria evoluzione genetica, simile a quella che oggi permette alle popolazioni andine di vivere ad alta quota senza subire danni. Per periodi più brevi, basterebbero alterazioni epi-genetiche, come quelle che si osservano negli alpinisti odierni. «Sarebbe davvero interessante trovare resti umani, e ancor di più estrarne il Dna», ha commentato la genetista Emilia Huerta-Sanchez al New York Times. Per ora, materiale per questo tipo di analisi non è stato ancora trovato.

LA SCOPERTA PUÒ DARE un altro scossone alle teorie dell’evoluzione umana. L’idea che l’Homo sapiens abbia sempre preferito luoghi caldi e pianeggianti è alla base di molte ricerche. Certo, sappiamo che sulle Ande, in Tibet e nella stessa Etiopia l’uomo vive da tempo ad alta quota, ma gli studiosi hanno sempre pensato che le montagne fossero state colonizzate per ultime. Diversi ritrovamenti molto recenti stanno facendo vacillare questa ipotesi. In Tibet, ad esempio, si stima che l’Homo sapiens si recasse a 4600 metri di quota già trentamila anni fa, per brevi periodi necessari a estrarre materie prime. E persino altre specie umane, come i denisoviani (una specie nostra «cugina», con cui abbiamo convissuto tra cento e duecentomila anni fa), hanno lasciato tracce del loro passaggio a circa 3300 metri di quota, ben 160 mila anni fa. Queste ricerche stanno facendo rivedere le teorie sulla capacità di adattamento delle specie umane e suggeriscono nuovi scenari sulla nostra evoluzione.

NEGLI ULTIMI DUE MILIONI di anni, i nostri antenati si sono adattati più volte a cambiamenti climatici repentini, glaciazioni, eruzioni vulcaniche che li hanno costretti a migrare. Per altro, come ricordava il rapporto dell’Ipcc – il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico istituito dall’Onu -, di qualche giorno fa, una buona parte delle migrazioni dipende tuttora dai cambiamenti climatici. La ricostruzione di questi remoti spostamenti è basata anche sulla nostra biologia. Per trovare conferma alle teorie, infatti, è ragionevole scavare negli habitat ritenuti più ospitali per gli umani che ci hanno preceduto e scartare percorsi ritenuti troppo difficili per i nostri antenati.

Ma spesso le scoperte più importanti avvengono proprio dove meno le si aspetta. Uno degli autori dello studio, Götz Ossendorf dell’Università di Colonia, lo ammette: «Siamo stati semplicemente i primi a cercare più in alto». Scoprire che già nel pleistocene eravamo in grado di adattarci a ambienti naturali così ostili può suggerire traiettorie inedite per il nostro passato. E forse anche per il futuro.

 

NOTIZIE BREVI DI SCIENZA

Addio allo scienziato Kary Mullis

Il 7 agosto è morto a Newport Beach a 74 anni Kary B. Mullis. Nobel per la chimica nel 1993 insieme a Michael Smith, Mullis aveva scoperto il «metodo della reazione a catena della polimerasi», noto come «Pcr» che permette di duplicare un frammento di Dna fino a produrne la quantità desiderata: uno strumento imprescindibile per qualunque tecnico o scienziato. Secondo il «New York Times», «la biologia si divide in due epoche: prima della Pcr, e dopo la Pcr». La sua è una biografia atipica per un Nobel: dopo il dottorato, lasciò la ricerca per dedicarsi alla narrativa e alla gestione di una panetteria, poi lavorò alla società Cetus presso cui realizzò la sua scoperta più nota. Appassionato di surf e consumatore abituale di Lsd, era convinto che l’Aids fosse il risultato dello stile di vita degli omosessuali e negava l’origine umana del riscaldamento climatico.

L’impatto locale del mutamento climatico

Fredrik Charpentier Ljungqvist dell’università di Stoccolma ha studiato la relazione tra temperatura e precipitazioni in Europa negli ultimi 1200 anni. La sua ricerca, basata sullo studio degli anelli di crescita degli alberi, rivela che mentre la temperatura media si è innalzata in tutta Europa, gli effetti sulle precipitazioni sono stati diversi da regione a regione. Nella zona meridionale, temperature più calde hanno provocato siccità e scarsità di piogge. Al contrario, nella regione settentrionale, le estati più calde sono state accompagnate da maggiori precipitazioni. Dunque, se da un lato il rischio di siccità per tutto il continente europeo potrebbe essere stato sovrastimato, al contrario occorre rivedere verso l’alto la probabilità che nelle estati future l’Europa del nord sia colpita da inondazioni. Lo studio è uscito sulla rivista «Environmental Research Letters».

Novartis accusata di frode scientifica

L’autorizzazione da parte della Food and Drug Administration di una nuova terapia genica destinata ai bambini con atrofia muscolare spinale era basata su dati manipolati. Inoltre, la società Novartis che produce il farmaco, era consapevole della manipolazione dei dati da parte della sua controllata AveXis al momento della richiesta di autorizzazione, ma non ha fornito l’informazione all’agenzia. La frode è stata rivelata dalla Fda con una durissima e inusuale comunicazione: l’agenzia ha annunciato di voler rivedere il processo di approvazione, ma per ora il farmaco sarà mantenuto in commercio in quanto la manipolazione dei dati non riguarda i testi di efficacia e sicurezza sui pazienti. La terapia genica si chiama Zolgensma ed è nota per essere il farmaco più costoso del mondo: un trattamento costa oltre 2 milioni di dollari.