«È difficile diventare chi volevi essere» dice, con una traccia di protesta nella voce, Ryota Shinoda a suo figlio Shingo, nell’ultimo film di Hirokazu Kore-eda, Umi Yorimo Mada Fukaku. Un titolo, che nella versione internazionale è diventato After the Storm (ovvero, dopo la tempesta) ma che – ci dice il press book- in giapponese significa «più profondo del mare», e viene dal testo di una famosa canzone della popolare cantante Teresa Teng. Girato in un complesso di case di Tokyo, dove lo stesso Kore-ed ha vissuto con sua madre, tra i nove e i ventotto anni, dopo la morte del papà, e nella cui malinconica decrepitezza aleggia l’ombra di fallimento che strega il personaggio, After the Storm è un altro dei bellissimi racconti famigliari a cui il regista ha dedicato i suoi ultimi lavori.

Dopo il mondo femminile di Our Little Sister, al cuore della storia è un personaggio maschile. Non un uomo inflessibile – con gli altri e con se stesso- come il padre di Like Father Like Son, ma un uomo spezzato, deluso di sé, e che ha deluso chi gli sta intorno. Dopo quel primo libro che ha fatto parlare di lui come di una grande promessa letteraria, Ryota (Hiroshi Abe) non è più riuscito a pubblicare niente. Lui dà la colpa ai tempi che corrono, e sopravvive – con la scusa di star ricercando il suo prossimo romanzo- lavorando per un’agenzia investigativa privata, che lo paga molto meno di quanto gli serve per rispettare gli obblighi nei confronti della ex moglie e del figlio, e per alimentare la sua incorreggibile passione per il gioco. Contro cui è affondato il suo matrimonio.

Affiancato da un collega più giovane di lui, all’inizio dei film, Ryota è quasi una macchietta in un poliziottesco – ruba i biglietti della lotteria nel cassetto della madre, rivende a mogli che tradiscono il marito le foto incriminanti, promette inutilmente di saldare debiti che ha collezionato a destra e sinistra, spia da lontano la ex moglie con il suo nuovo compagno…Inadempiente come scrittore, figlio, marito, padre e fratello, Ryota vive paralizzato dall’abisso che esiste tra la sua realtà e quelle che erano le sue aspirazioni, sommerso dalla tonnellata di promesse infrante e bugie inutili dietro a cui si difende, e dall’eredità di un padre «poco di buono» come lui.

«Gli uomini non sanno esistere nel presente, pensano sempre alle cose che non sono riusciti a fare in passato e a quelle che non riusciranno a fare in futuro», gli dice un giorno suo madre (interpretata da Kilin Kiki, senza la cui partecipazione, ha detto Kore-eda, non avrebbe fatto questo film). «Per quello non amano la vita». È con l’aiuto dell’anziana signora, e del meteo, che il film si cristallizza d’improvviso in puro presente, quando Ryota, suo figlio, la ex, e la mamma, si trovano intrappolati, per un’intera notte, da un grosso tifone – il 24esimo, dicono le news, nel giro di pochissimo tempo.

Mentre fuori infuria la tempesta, nelle piccole stanze piene di ricordi del vecchio appartamento di famiglia, Kore-eda mette in scena una delicatissima coreografia dei personaggi, dei dialoghi e dei sentimenti; in cui, dalle macerie di cose preziose perdute per sempre, dalla malinconica accettazione di quanto certi sogni siano irrealizzabili, dall’amarezza dei rimpianti, sboccia il senso di una realtà nuova, più profonda – degli affetti e delle identità. Quando, il mattino dopo – e dopo la tempesta- i personaggi escono alla luce del sole, nessuno è cambiato. Però è tutto diverso.

Uomini in crisi anche in Hell and High Water, un altro titolo della sezione Un Certain Regard, diretto dall’inglese David Mackenzie (Young Adam), su sceneggiatura di Taylor Sheridan, autore del copione di Sicario, in concorso a Cannes 2015. Fotografia ipersatura e sgranata, che sembra traboccare dai contorni dello scope; recitazione ipersentita da Actors Studio doc; l’accento texano spesso come tabacco da masticare; e la convinzione che questo non è «solo» di un film di genere: il western di Mackenzie è la storia di due fratelli (Ben Foster, quello cattivo, e Chris Pine, buono ma che si lascia mettere sulla cattiva strada) che si mettono a rapinare banche per impedire il sequestro (una banca anche lì..) del ranch di famiglia.

Come Ryota nel film di Kore-eda, anche Toby Howard (Pine) ha una moglie e un figlio a cui deve dei soldi e delle scuse. Suo fratello Tanner (Foster), invece, ha scritto irrecuperabile da tutte le parti. È un miracolo che abbia resistito un anno fuori dalla prigione, dove è stato più volte. Due poveracci messi alle strette da un mondo ingiusto (c’è un’ombra dell’America di Trump, e molta vecchia condiscendenza europea, in questo film) e sulle cui tracce si mettono anche uno sceriffo sull’orlo della pensione (Jeff Bridges) e il suo vice comanche (Gil Birmingham), che hanno dialoghi da screwball. Tutto già detto, tutto già visto. Con meno mezza e pretenziosità. Consigliamo in alternativa western, Bone Tomahawk, uscito l’anno scorso.