In Giappone ogni anno centinaia se non migliaia di persone decidono di sparire ed eclissarsi dalla superficie visibile della società, johatsu, evaporare, è il termine usato per descrivere questo fenomeno, notato per la prima volta su grande scala durante gli anni sessanta. Naturalmente queste persone non scompaiano del tutto, non lasciano cioè l’arcipelago, ma di solito per le più svariate ragioni che possono essere familiari, ma più spesso di natura sociale o lavorativa, decidono, novelli Mattia Pascal, di cambiare identità, indirizzo e recidere tutti i rapporti con la loro vita precedente. Già nel 1967 Shohei Imamura realizza sul tema uno dei suoi capolavori, A Man Vanishes, pellicola ibrida a metà strada fra documentario e finzione che indaga proprio la vita di uno di questi «evaporati». Il processo di autoemarginazione, di fuga ed il tentativo di sparire dall’orizzonte sociale giapponese è anche al centro di Our Escape, film diretto, scritto e montato da Nobuteru Uchida, autore che dopo il debutto con Love Addiction nel 2010, aveva continuato la sua personale esplorazione cinematografica dell’arcipelago con Odayaka e Love Bombs fra il 2012 ed il 2013.

Con questa pellicola, attualmente nelle sale giapponesi, il regista racconta la storia di Noboru, un giovane che vive alla periferia di Tokyo in una piccola tenda completamente coperta di ideogrammi, poemi d’odio attraverso i quali esprime ed esorcizza il suo disprezzo verso le persone ed il mondo con cui ha avuto a che fare nel suo passato. Un giorno, durante i suoi vagabondaggi in bicicletta per la città, assiste ad una lite fra un uomo ed una giovane ragazza, che questi usa per attirare clienti promettendo una notte di sesso, ma in realtà estorcendo loro dei soldi. Noboru si ritrova attratto dalla ragazza e quando riesce a sbarazzarsi del magnaccia/amante la invita in tutti i modi a fuggire lontano da Tokyo e dal suo passato. Il film pur non essendo visivamente troppo violento, è un pugno nello stomaco di rara crudezza per la capacità di guardare diritto dentro i due protagonisti e loro disperazione. Non c’è niente di romantico fra i due, anche quando finiscono per fare l’amore nella piccola tenda è più un atto meccanico privato di ogni calda emozione, quasi una reminiscenza bressionana, che un incontro fra due solitudini che cercano di trovare conforto. C’è molto egoismo e possessività, specialmente da parte di Noboru, incapace di instaurare un qualsiasi tipo di relazione con la giovane, atteggiamento che lo stesso regista in alcune sue dichiarazioni, accosta a quello dello stato giapponese.

Dire «quest’isola mi appartiene» continua Uchida riferendosi alle dispute territoriali che il Giappone ha con gli stati vicini, è come per un uomo affermare «questa donna mi appartiene!». Amore, guerra e senso del possesso sono allora sentimenti egotisticamente accomunabili. L’uso del digitale è in Our Escape, come nei lavori precedenti del regista, massimizzato soprattutto nell’eccellente uso delle luci, la tenda illuminata dal suo interno nell’oscurità più totale, potente allegoria della condizione dei due protagonisti, ma anche i primissimi piani sui visi slavati e segnati dei due giovani sono alcune delle immagini che più restano impresse nello spettatore.
Proprio l’incredibile performance fisica dei due protagonisti, soprattutto quella di Ryubun Sumori nel ruolo di Noboru, un corpo emaciato e scavato quasi sul punto di spezzarsi sotto i colpi degli accadimenti, un viso antico, ma allo stesso tempo disperato e da emarginato, sono un altro punto di forza di questa pellicola.

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