«Uomo non mangia uomo»: una regola non scritta, quasi una legge divina da ripetere a un bambino impaurito dopo aver visto il padre che viene picchiato a sangue in un incontro di boxe di poco conto, combattuto per racimolare qualche quattrino. Jorge, pugile e genitore ma soprattutto ex operaio di una fabbrica portoghese chiusa in seguito alla crisi, consola così il figlio che lo ha visto incassare i colpi di un altro uomo senza il capire il perché. Ma in realtà Sao Jorge, il film di Marco Martins presentato nella selezione di Orizzonti, punta programmaticamente a smontare proprio questo assunto, in una discesa negli inferi ambientata nella periferia più povera e abbandonata di Lisbona, dove il protagonista santo peccatore si dibatte per continuare a mantenere il piccolo Florian e per fare in modo che l’ex moglie Susana non torni in Brasile con loro figlio e un nuovo compagno.

È così che Jorge finisce nel girone delle agenzie di recupero crediti, che lo arruolano ufficiosamente per le sue doti da picchiatore nella squadra criminale di strozzini che fanno visita ai debitori per «sollecitarli» a pagare. La macchina da presa segue Jorge da vicino nel suo girovagare, e il mondo che lo opprime resta spesso fuori fuoco e fuoricampo, solo per rientrarci in forma di rumori assordanti e altrettanto opprimenti, che sia il frastuono del ring e dei palazzoni popolari brulicanti di vite dannate o quello del call center delle agenzie di riscossione crediti.

Gli interventi della troika europea in seguito alla crisi, ci spiega la didascalia che chiude il film, hanno facilitato il moltiplicarsi e la libertà di movimento di queste attività sorte sul confine tra legge e criminalità pura. Jorge ha la possibilità di fare la scelta giusta, di rifiutarsi, di girare le spalle a chi vuole che picchi a sangue i colpevoli di non aver ripagato in tempo un debito spesso insolvibile. O meglio, forse una scelta l’avrebbe se fosse il santo evocato dal titolo, ma la gabbia in cui lo rinchiude la storia scritta da Marco Martins lo rende un burattino manovrato da una sorte comunque segnata: perdere le uniche due persone che danno un senso alla sua vita o la propria umanità. In questa gabbia non c’è posto per il libero arbitrio o la redenzione, ma neanche lo spazio vitale per la nascita di un personaggio in carne e ossa, che si vorrebbe profondamente realista ma finisce per diventare il mero termine di un’equazione