Kyoto, quartiere di Nijo Teramachi, nei pressi del castello di Nijo. Anno 24 dell’epoca Meiji, 1891. Il signor Yamada Naosaburo, secondo di tre figli della famiglia Honda che gestiva un’attività di rilegatoria, adottato dai Yamada, dopo un’esperienza nel famoso negozio di libri Bunkyodo della stessa città di proprietà di Tanaka Jihei, decide di rendersi indipendente aprendo una libreria specializzata in volumi d’arte. Viene chiamata Unsodo, scegliendo tre caratteri cinesi (kanji) che richiamano il «luogo dell’arte»: un si legge anche gei e indica le arti in generale, è lo stesso carattere semplificato gei di geisha; so si legge anche kusa e significa erba o erbe; do, usato spesso come suffisso, indica un padiglione o un grande edificio che contiene, come una sala della preghiera di un tempio, una mensa, un magazzino.

CARATTERI che sono allo stesso tempo scaramantici, facendo riferimento in modo sottile, con quel secondo kanji soi, alle erbe e alle foglie aromatiche tradizionalmente usate tra le pagine dei libri per scampare al pericolo costante temuto da ogni libraio dei pesciolini d’argento che, aiutati dall’umidità tipica dell’arcipelago giapponese e dagli edifici in legno, divorano pagine di libri e opere pittoriche su carta creando piccoli canali ricamati.
Un marchio portafortuna che fu avvallato da uno dei più grandi artisti letterati bunjin di quest’epoca moderna, Tomioka Tessai (1837-1924), dedito alla pittura e alla calligrafia e riconosciuto come artista della casa imperiale per la sua attività all’interno di quel filone definito Nihonga, della «pittura giapponese» appunto, che cercava a tutti i costi di trasportare la tradizione oltre il caos della nuova epoca post Restaurazione, contro un’occidentalizzazione forzata.
Quando Unsodo decise di diventare protagonista della produzione libraria di Kyoto stampando e distribuendo anche propri volumi, Kyoto non era più la capitale imperiale splendente che era stata per oltre un millennio; l’aria che si respirava era sicuramente di vuoto dopo che la figura Imperiale, tornata al centro di un governo monarchico costituzionale nel 1868, con l’abbattimento dello shogunato, si era trasferita a Tokyo facendo di quello che era stato il castello shogunale di Edo il palazzo imperiale.
Era una Kyoto intrisa di una ricchissima tradizione artistica, pittorica, e artigianale, mestieri legati alla lavorazione della ceramica, della lacca, del tessile, all’arte della dolceria, del tè, dei giardini: tutto aveva ruotato intorno a una raffinatezza e a una ritualità indistricabili dal mondo nobiliare di corte che aveva forgiato l’anima della Capitale, ma mentre la nobiltà di corte con le sue necessità quotidiane in epoca Meiji si sfaldava e percepiva il disorientamento di un così grande cambiamento, la città che creava con le mani cercò l’innovazione e il confronto con ciò che proveniva da Occidente.
I volumi di Unsodo e il luogo stesso sono lo specchio di questo periodo, perché se è vero che parlando di un editore giapponese immaginiamo scaffali di libri rilegati col filo di seta, quello che meno immaginiamo è che dietro a ogni pagina ci siano decine di matrici in legno di ciliegio incise, secondo il disegno di ciascun artista o illustratore chiamato a collaborare, per ogni colore che si ritrova nel volume, dunque un lavoro di equipe che vede diverse professioni coinvolte.

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ANCORA OGGI il magazzino ligneo di Teramachi dietro il negozio, nascosto all’occhio del visitatore, rimane uno dei luoghi più affascinanti e magici di Kyoto con migliaia e migliaia di tavolette di legno – nessuno le ha mai contate – iscurite dal tempo e dagli inchiostri, raggruppate in pacchetti dove possibile o accatastate libere fino all’alto soffitto, su due piani, dove ancora non si è riusciti nel lavoro immane di archiviazione. Le etichette che pendono qua e là indicano quell’artista, quell’opera, quel volume o quella serie di stampe, di calligrafie, quel giornale o quotidiano. E a vedere i nomi vengono i brividi, è come fare un salto nel tempo raggiungendo quegli artisti che rappresentarono il cuore della produzione artistica di fine Ottocento e inizio Novecento di Kyoto.
Si capisce che da quella stamperia (hanmoto) – come nella migliore tradizione editoriale legata anche alle immagini ukiyoe che sempre riporta sigillo e talvolta pure l’indirizzo dell’editore – sono nate opere in stampa policroma oggi conservate in biblioteche e musei di tutto il mondo: i 3 volumi di Kamisaka Sekka (1866-1949) Momoyogusa (Un mondo di cose) del 1909-10, uno dei lavori che rappresentano l’evoluzione dello stile semplice e decorativo della scuola Rimpa iniziata nel XVII secolo trasformata in un linguaggio vicino al design grafico; i volumi di capolavori del grande Takeuchi Seiho (1864-1942), altro esponente dei Salon di Kyoto che ha formato generazioni di artisti nella ricerca di un certo realismo di ispirazione europea; ma anche le edizioni Meiji dei Manga di Hokusai, acquisiti dai passati editori e che ancora oggi vengono realizzati da Unsodo insieme a tante altre opere d’arte antiche, mantenendo viva la tradizione hanga, e la riproducibilità della pittura a stampa a mano da matrice lignea (hangi) finché questa non si deteriori.
Nonostante la natura locale e artigianale di questo editore sia nella gestione sia nei contenuti e il low-profile mantenuto nel tempo fino all’odierna quarta generazione con Yamada Hirotaka, l’aria che si respira in questo luogo è internazionale e strettamente legata al contesto storico e sociale. Infatti la produzione editoriale più significativa è quella di volumi illustrati utilizzati come cataloghi di modelli per negozi e grandi magazzini (mihoncho) che necessitavano di presentare i loro prodotti artigianali alla clientela; la dimensione e i formati variegati di questi volumi dove kimono, paraventi, ventagli, vasi, teiere, spade, dolci, giocattoli, motivi decorativi e soggetti di ogni gusto (zuancho) applicabili in ogni ambito della produzione artigianale vengono descritti nei più minuti particolari dalle mani esperte e veloci di disegnatori artisti come Kaigai Tennen, Tsuda Seifu, Furuya Kōrin e tanti altri, attraverso una piena policromia, stampata sempre con matrice in legno, rende i volumi stessi opere d’arte.

UN PATRIMONIO di bellezza e un sunto di quella esoticità che proprio a cavallo dei due secoli stava conquistando il mondo grazie alle Esposizioni Internazionali, che promuovevano l’esportazione di manufatti d’alto artigianato oltre che d’opere d’arte tra cui le famose silografie del Mondo Fluttuante, le fotografie dipinte a mano, ma anche dipinti su rotolo e paraventi. Unsodo rappresenta ancora oggi il carattere collaborativo dell’arte giapponese e l’assenza di confine tra arti visive o maggiori e arti applicate – un concetto introdotto dall’Occidente proprio negli anni Meiji.
Il dibattito intorno allo zuan, al disegno, alla grafica, era alla base della trasformazione dell’educazione in campo artistico, ma anche artigianale e industriale di quegli anni, lo dimostra il fatto che venne sostituito dal termine graphic design negli anni cinquanta del Dopoguerra segnando il passaggio alla grafica contemporanea. Esso prevedeva un lavoro sinergico artista-artigiano i cui equilibri subirono profondi cambiamenti in seguito all’adozione dei canoni estetici europei dando vita a nuove sperimentazioni e modelli educativi nelle prime scuole d’arte di Kyoto divenute poi le attuali Università. Distribuiva sul territorio nazionale oltre che in Asia, nei territori sotto il controllo giapponese, ma come tanti di questi volumi siano arrivati in Europa, fin nelle biblioteche e nelle collezioni meno note del nostro territorio italiano è ancora da scoprire.

CERTO LA RAFFINATEZZA della stampa e la bellezza dei soggetti trasformò gli zuancho nelle mani degli stranieri in opere d’arte da collezionare; facili da trasportare e probabilmente disponibili in quantità a prezzi modici all’epoca dei primi viaggiatori in Oriente, finirono presto tra le giapponeserie da portare in patria come piccoli trofei di setaioli, bachicoltori, collezionisti, diplomatici. Anche se le loro pagine, la semplificazione delle linee tradizionalmente parte dell’arte giapponese tanto apprezzate dagli occidentali, respiravano già la contaminazione dell’Art Nouveau e dell’Art Deco provenienti dalla stessa Europa, perché gli artisti giapponesi Meiji la stavano ormai frequentando attivamente.