Non usa mezze parole il ministro della difesa israeliano Avigdor Lieberman quando ‎esprime il suo punto di vista. Lo provano le sue ultime dichiarazioni. Negoziare con ‎i palestinesi non serve a nulla, spiegava ieri. ‎«Dobbiamo portare avanti la nostra ‎politica da soli‎» ha detto aggiungendo che ‎ogni volta che ha incontrato responsabili ‎dei paesi arabi ‎‎«non c’è stato alcuno che abbia sollevato il dossier palestinese. Non ‎gli interessa‎». Magari ha esagerato ma è andato vicino alla realtà. I palestinesi sono ‎soli, abbandonati anche dai “fratelli” arabi e ingannati da decenni di vuote promesse ‎fatte dai governi delle democrazie occidentali. Perché, domanda Lieberman, Israele ‎dovrebbe sedersi al tavolo delle trattative visto che può fare come crede. A maggior ‎ragione ora che alla Casa Bianca c’è un presidente che ha adottato tutta l’agenda ‎israeliana e che, stando a quanto si è letto in questi giorni, dopo mesi di grandi ‎proclami sul suo “Accordo del secolo” tra israeliani e palestinesi, non pare andare ‎oltre la proposta al presidente dell’Anp Abu Mazen di una confederazione tra ‎palestinesi e giordani, un’idea che sa di rancido e che da oltre venti anni è chiusa ‎nello scantinato della storia. Abu Mazen ha detto agli inviati di Trump che ‎accetterebbe la proposta se ne facesse parte anche Israele. Da Tel Aviv e da Amman ‎è giunto un immediato e secco no. Se il governo Netanyahu non ha alcuna ‎intenzione di dare il via libera a uno Stato palestinese con una vera sovranità e vuole ‎tenersi in un modo o nell’altro tutto il territorio della Palestina storica, da parte sua ‎la Giordania che già ora ha una popolazione in buona parte di origine palestinese e ‎che ospita oltre due milioni di profughi sa che confederandosi con uno staterello ‎palestinese rischierebbe in pochi anni di diventare lo Stato di Palestina teorizzato da ‎non pochi dirigenti israeliani, non solo di destra.

‎ Queste tuttavia sono soltanto manovre diversive per tenere nella nebbia il vero ‎obiettivo che si sono dati l’Amministrazione Usa e il governo Netanyahu: fare a ‎pezzi la legalità internazionale in modo da porre fine a qualsiasi rivendicazione ‎palestinese fondata sulle risoluzioni delle Nazioni unite. Il taglio annunciato la ‎scorsa settimana degli oltre 300 milioni di dollari garantiti sino al 2017 dagli Stati ‎uniti all’Unrwa, l’agenzia dell’Onu che assiste i profughi palestinesi, non è, come ‎crede qualcuno, una forma di pressione per costringere Abu Mazen ad accettare il ‎piano americano ‎«di pace‎». Piuttosto è un morso velenoso al diritto al ritorno nella ‎terra d’origine per i rifugiati e le loro famiglie. Un passo che, come il ‎riconoscimento lo scorso dicembre di Gerusalemme capitale d’Israele, vuole ‎scardinare la compattezza della comunità internazionale a sostegno di cinque ‎milioni di persone che attendono da 70 anni la realizzazione del loro diritto, sancito ‎dalla risoluzione 194 dell’Onu. Se il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv ‎a Gerusalemme ha poi visto alcuni paesi fare altrettanto e altri ancora (persino ‎europei) prendere in considerazione questa mossa, adesso Trump e Netanyahu si ‎aspettano che altri Stati comincino a mettere in dubbio il ruolo dell’Unrwa e a ‎contestarne i criteri con cui definisce profugo un palestinese. È un assalto senza ‎precedenti al diritto. Non è secondario che i governi israeliani dalla seconda Intifada ‎nel 2000 fino all’ultima offensiva militare contro Gaza nel 2014, stiano insistendo ‎affinché sia rivista la definizione di crimine di guerra compiuto da una “democrazia” ‎impegnata contro ‎«organizzazioni terroristiche» che agiscono in aree popolate. ‎Insomma basta alle condanne per i “danni collaterali” (i civili) delle operazioni di ‎guerra e gli Usa su questo sono d’accordo da lungo tempo.

‎ Gli Usa, ricorda lo storico Ilan Pappe, «furono tra i fautori della creazione ‎dell’Unrwa con l’idea che avrebbe dovuto condurre alla applicazione della ‎risoluzione 194…la decisione di Trump perciò è la rottura dell’impegno preso dagli ‎Stati uniti, in nome degli interessi di Israele e non certo dell’America (che versava i ‎fondi all’Unrwa, ndr)». Oggi Washington non esita a gettare nella disperazione ‎milioni di uomini donne e bambini e pur di raggiungere i suoi scopi. Lo sdegno e le ‎proteste dei rifugiati si registrano ovunque‏.‏‎ Dai campi in Libano e Giordania alla ‎Striscia di Gaza già colpita dalla riduzione di servizi e posti di lavoro da parte ‎dell’Unrwa privata dei fondi Usa (30% del budget dell’agenzia). ‎«È una decisione ‎ingiusta che avrà un enorme impatto sulla nostra vita ma qualunque cosa facciano ‎noi resteremo‎», assicura Hussein Abu Shanaan, 80 anni, residente da decenni nel ‎campo di Baqaa, a qualche chilometro da Amman, con i suoi quattro figli e quasi 20 ‎nipoti‏.‏‎ ‎«Se gli americani non vogliono aiutarci, possono restituirci il nostro paese, ‎la terra e le proprietà. Le nostre famiglie un tempo possedevano grandi case, fattorie ‎e animali‎», aggiunge da parte sua Nawja Faraj, 70 anni. Simili le parole che ‎abbiamo raccolto a Gaza. Naima Abdallah, 46 anni, originaria di Hamam, e Shaban ‎al Burai, 86 anni di Dimra ci dicevano ieri che ‎«Trump e Israele possono toglierci il ‎pane ma non riusciranno ad annullare il diritto al ritorno, la Palestina era e resta la ‎nostra terra». Per il pittore Jawad al Malhi, del campo profughi di Shuaffat e ‎originario del villaggio di Malha (Gerusalemme), americani e israeliani ‎«non hanno ‎fatto i conti con la determinazione dei palestinesi». Le difficoltà aumenteranno, ha ‎previsto, ‎«e colpiranno una popolazione già molto provata. Ma negoziati, leader ‎politici e trattative segrete non potranno mai costringere i profughi palestinesi a ‎dimenticare la loro storia e di aver subito un torto che solo la realizzazione del ‎diritto al ritorno potrà cancellare». ‎