C’è una donna, Giovanna, che insieme a un gruppo di volontari manda avanti un centro ricreativo per ragazzini nella periferia di Napoli, quelle con l’etichetta di «realtà difficili», degrado, violenza, pistole e camorra (e serie tv), che li dentro però non entrano concedendo a chi lo frequenta una «pausa», una specie di sospensione rispetto alla propria realtà. Poi però succede qualcosa, una giovane donna viene accolta nel centro coi suoi due figli, è la moglie di un camorrista che ha ammazzato un operaio per sbaglio. Lo cercano ovunque, lei lo aveva nascosto lì. Lui finisce in galera, la ragazza rimane rifiutando di raggiungere la famiglia del marito. Ma le mamme dei bambini, il preside della scuola, gli insegnanti, pure qualche volontario si oppongono. Non la vogliono, non può stare lì, deve andarsene. Solo Giovanna resiste.

L’intrusa è il nuovo film di Leonardo Di Costanzo, scritto insieme a Maurizio Braucci e a Bruno Oliviero, secondo titolo italiano nella selezione della Quinzaine des Realisateurs, la sezione diretta da Edouard Waintrop, che ha saputo comporre nella sua selezione un itinerario di cinema indipendente (nella testa e nel cuore prima che nei budget), polifonico contro il suono finora piuttosto monocorde del concorso. È nata nel 68 la Quinzaine, per desiderio dei registi Nouvelle Vague, gli stessi che Hazanavicius sbeffeggia nel suo film «dedicato» a Godard (Le Redoutable) liquidando qualsiasi pensiero sul cinema – peraltro primario in un festival che si schiera a sua difesa, a difesa dell’arte cinematografica e della sala, forse però intesa solo come esercizio, una mera questione di soldi insomma il che spiegherebbe il perché lo hanno messo in concorso.

Come il precedente L’intervallo anche L’intrusa fa accadere la sua narrazione in un unico luogo, il centro ricreativo (che poi è la sede dell’Arci Movie a Ponticelli) a cui rimanda l’ interrogativo su cui si fonda il film: permettere a Maria – è il nome della moglie del camorrista – di rimanere insieme ai figli, e assumere l’ambiguità della sua posizione offrendole uno spiraglio verso qualcos’altro – a lei, alla ragazzina rabbiosa che è la maggiore. O cacciarla perché «contamina», porta dentro a un posto quella stessa realtà che vuole contrastare condannandola così alla solitudine. Un dilemma morale che esprime la nostra contemporaneità a partire dalla dimensione dell’accoglienza: quali mediazioni implica, in che modo si possono tessere degli equilibri, per quanto fragili che permettano alle diverse parti di riposizionarsi reciprocamente.

Giovanna,a cui dà spigolosità intensa Raffaella Giordano, danzatrice e coreografa, è una donna solitaria, forse la vera «intrusa» in quel quartiere con la sua erre moscia e la parlata da straniera. Colei che le altre vogliono cacciare è invece molto più simile a loro, a quanto ci dicono frammenti appena colti nella conversazione dei ragazzini che frequentano il centro e parlano di parenti in galera, senza stupori di fronte al paesaggio della criminalità.

Ma l ì dentro i bambini sono tutti uguali, dipingono, giocano, costruiscono pupazzi meccanici, preparano la festa con musica e danze, fanno merenda. E litigano, si picchiano pure, per loro la presenza della piccola figlia del boss, Rita, non è un problema, diventano amici subito, senza pregiudizi, non ci sono etichette né codici d’onore a condizionarli, non ancora almeno. Però è grazie a loro se il centro esiste e se nessuno più bambino finirà, una evidenza dura da accettare per Giovanna che ci ha messo tutta la vita.

Lo scontro di una persona con quanto la circonda è una materia sintonizzata al lavoro del regista – pensiamo alla protagonista del suo doc A scuola – anche se qui forse l’accento si sposta sulla scelta, implicazioni e strategie, sul compromesso e sull’inadeguatezza dello slancio personale rispetto alla realtà. Maria non abbassa mai la testa, tantomeno di fronte a Giovanna, non si pente, non si scioglie in lacrime, è arrogante e mai ruffiana. È capace di andare da un punto all’altro, di non impantanarsi, veloce nella concretezza di una vita in cui le scelte sono obbligo quotidiano e il suo movimento interiore risulta alla fine quello più forte del film.

Di Costanzo però non cerca un giudizio così come non impone una spiegazione. È a quel confronto, e al suo dilemma, che dà corpo, e qui è la sua scommessa. Sono le contraddizioni la sua lente sul mondo e non la linea di un racconto che risponde alle aspettative. Chi ha ragione? Chi ha torto? O meglio: chi può rivendicare il diritto di giudicare tra quelle mamme, le istituzioni, il resto del mondo in quello slittamento in cui il giudizio permette di non assumersi le responsabilità.

La lingua è il dialetto, gli attori – compresa appunto la protagonista – sono tutti non professionisti – Valentina Vannino che interpreta Maria è nata nel 1991 e non era mai stata davanti alla macchina da presa. La realtà vive nel movimento di chi la attraversa, in quel lì e ora astratto da spiegazioni, contesti, maschere, strutture narrative che impongono a tutti i costi un punto di vista. Un po’ come Giovanna anche noi spettatori ci troviamo di fronte a una scelta, siamo chiamati in questione a dare la nostra risposta, a cercarne dentro le nostre convinzioni, nel nostro orizzonte personale e collettivo. Che potenza di fronte a un cinema «domopack» che qui sulla Croisette sembra trovare la propria consistenza soltanto in una dimensione totalitaria.

La scelta di Di Costanzo, fortemente politica e teorica, è invece affidare il proprio racconto a una messinscena lucida, tesa, che alla «spiegazione» predilige l’interrogativo, e nella fotografia di Hélene Louvart trova una complicità perfetta, capace di illuminare l’improvvisazione del gioco, gli impercettibili passaggi di espressione, il movimento dei corpi nello spazio (orchestrato dal montaggio di Carlotta Cristiani): bimbi, adulti, i sottili e invisibili confini che ne sanciscono la posizione emozionale. L’invenzione di un racconto dentro al nostro tempo.