Le lacrime della violinista greca in poche ore hanno fatto il giro del mondo, trasformandosi in un simbolo. Nell’era della comunicazione globale la vicenda dell’orchestra sinfonica dell’Ert, travolta dalla inaudita decisione del governo greco di chiudere l’intero comparto radiotelevisivo pubblico, ha ottenuto un risalto impensabile solo un decennio fa, dato anche lo scarso interesse che i media tradizionali dimostrano per la musica classica, con rare eccezioni.
Tuttavia al primo, lodevole, perfino esaltante effetto emotivo «virale» dovrebbe seguire una serie di riflessioni più meditate. Per quel che riguarda l’Italia, siamo sicuri di poterci ergere così facilmente a giudici della situazione greca, nonostante si tratti patentemente di un caso inusitato, persino dubbio sul piano delle libertà individuali in fatto di informazione?
La memoria corre indietro al 1994, quando le quattro orchestre e i cori della Rai furono fusi per motivi eminentemente economici, fra inutili appelli e protese. Come risultato, oggi fortunatamente esiste un’orchestra Rai – peraltro di ottimo livello – a Torino ma a fronte di numerose perdite di posti di lavoro credo sia difficile rilevare un significativo contributo alla situazione economica dell’azienda.

Non più tardi di un mese fa la gestione commissariale del Maggio Musicale Fiorentino, dinanzi alla gravissima situazione finanziaria, ha messo in campo la proposta di tagliare la compagnia del Maggio Danza e di eliminare il comparto scenotecnico della fondazione, come dire amputare due componenti essenziali che nei decenni hanno contribuito alla proposta culturale del Maggio.

Anche le fondazioni liriche più virtuose sul piano dei bilanci si trovano spesso negli ultimi anni a fronteggiare tagli definiti a bilanci ormai chiusi, sull’esercizio corrente. Due anni fa un taglio draconiano del Fus fu scongiurato con l’intervento pubblico di Riccardo Muti, alla testa del coro dell’Opera di Roma in lacrime, sulle note del Va pensiero in diretta televisiva. Appare chiaro che si tratta di scelte di politica culturale, prima che di politica economica dettate da pur pressanti pressioni dell’Unione Europea.
Nonostante la crisi, tedeschi, inglesi e francesi hanno saputo mantenere o in alcuni casi aumentare le spese per la cultura, mentre l’Italia resta al palo con cifre modestissime investite sul patrimonio artistico e nel settore musicale, che soffre da anni una situazione endemica di difficoltà economica e di assenza di riforme. Alcuni recenti studi (come quelli di Fondazione Industria e Cultura) dimostrano che l’Italia è molto indietro anche nella capacità di far produrre Pil al comparto dei beni culturali, a differenza di Regno Unito, Francia e Germania. Tuttavia non si può negare che esista una tendenza generale che investe particolarmente il settore della musica classica, a partire da quello discografico fino a quello dell’esecuzione dal vivo, con una decrescita – salvo eccezioni – di fondi pubblici e di interventi privati.

In Spagna numerosi festival e teatri, primo fra tutti il Liceu di Barcellona, hanno dovuto ridurre le proprie stagioni, mentre il teatro São Carlos di Lisbona tenta una difficile ripresa, puntando su forze locali; nei civilissimi Paesi Bassi la radio nazionale ha appena chiuso l’orchestra da camera e a Berlino si discute da anni della riduzione dei poli di teatro lirico (Deutsche Oper, Staatsoper e Komische Oper). Perfino dall’altra parte dell’oceano il modello delle grandi orchestre finanziate da donatori privati risente drasticamente della grande crisi, specie del settore metallurgico e automobilistico, con orchestre storiche come quella di Detroit che lottano per la sopravvivenza, mentre altre formazioni più piccole hanno già chiuso i battenti.

Il caso greco resta un caso limite macroscopico, suscettibile forse di correzioni dell’ultimo minuto, perché coinvolge soprattutto l’informazione pubblica: tuttavia, fuor di retorica, cittadini, intellettuali, politici e amministratori dovrebbero interrogarsi seriamente sul valore, sul significato e sulla reale esigenza di mantenere in vita oggi orchestre e teatri lirici, su quale sia la reale funzione di queste istituzioni all’interno del tessuto sociale, al di là delle questioni, non meno rilevanti, dei costi e della buona (o pessima) gestione.

Musicisti, macchinisti, attrezzisti, operai, migliaia di addetti, un comparto e un indotto di dimensioni vaste e articolate, oltre che un pubblico e un tessuto culturale e di passioni umane e civili immense, attendono una risposta seria, degna di paesi civili figli di una tradizione culturale plurisecolare, che non sia «ce lo chiede l’Europa».