L’unico Jobs Act credibile è un programma industriale e infrastrutturale che ricollochi il paese nella fascia alta della divisione internazionale del lavoro. Le risorse ci sono: i 114 miliardi di euro dei programmi cofinanziati dai fondi europei fino al 2020. Secondo Shirin Wheeler, portavoce del Commissario Hahn, i fondi strutturali possono essere usati solo per lo sviluppo e non per ridurre le imposte, come ipotizzato dal ministro Padoan e dal professor Perotti su Il Sole 24 Ore.
Ieri Wheeler ha salvato la programmazione italiana. Padoan vorrebbe usare i fondi su tre capitoli: mercato del lavoro, capacità di competere delle imprese (riferendosi al taglio del cuneo fiscale), ammortizzatori sociali. L’unico precedente praticabile è la misura del governo Berlusconi che rinnovò la Cassa integrazione in deroga, vincolandola alla frequenza di corsi di formazione professionale da parte dei cassintegrati.

In quel caso il Fondo Sociale Europeo (FSE) delle Regioni pagò i corsi. Per Perotti, poiché Regioni e ministeri non spendono i programmi Ue, dovremmo farci scontare il cofinanziamento europeo da Bruxelles e usare quei soldi per tagliare le tasse alle imprese: gli sconti fiscali sarebbero maggiori al Sud che ha la dotazione più consistente di fondi europei. Tale proposta non funziona perché è un tentativo già fallito in Irlanda negli anni ’90: lì le Zone Franche Urbane attrassero le aziende straniere alla ricerca di sconti fiscali; finiti gli sconti, le imprese fuggirono verso l’Europa Orientale dove trovarono nuovi vantaggi. Se limitasse la competitività al dumping fiscale, il governo non capirebbe perché imprese italiane delocalizzano in Germania ed Austria dove il costo del lavoro è simile a quello italiano. Al contrario, poiché i fondi Ue sono circa il 33% della spesa pubblica italiana in conto capitale e circa il 50% di quella meridionale, occorre riprogettare il sistema produttivo italiano partendo dal Sud: un governo adeguato non butta i soldi in incentivi automatici e sgravi fiscali, bensì sceglie le filiere produttive su cui puntare, finanzia la ricerca necessaria a rendere innovative quelle filiere e costruisce le infrastrutture per renderle competitive. Si chiama programmazione.

Di fronte alla spesa lenta e inefficace dei fondi europei (di ministeri e Regioni), un presidente del consiglio e segretario del Pd, uno statista, sostituisce gli amministratori e i dirigenti incapaci, e programma le politiche industriali. Poiché è impossibile rilanciare l’economia italiana trascurando il Meridione, poiché la maggioranza dei fondi europei è assegnata al Sud, il primo vero banco di prova del governo sarà la riprogrammazione e lo sblocco dei fondi europei. Secondo i dati del ministero delle Politiche agricole e dell’ex ministro della Coesione territoriale del ciclo 2007-2013 in Puglia, Sicilia, Calabria, Basilicata e Campania rimangono da spendere 19,538 miliardi di euro. Il governo del fare, per operare bene, dovrebbe partire dai programmi che deve chiudere entro il 2015: il ministro Giannini ha 1839 milioni del Pon Ricerca e Competitività: potrebbe far tornare i ricercatori meridionali fuggiti all’estero; il ministro Lupi ha 1153 milioni del Pon Reti e Mobilità: potrebbe estendere l’alta velocità fino a Lecce; il ministro Franceschini ha 381 milioni del Pon Attrattori Culturali: potrebbe pagare gli interventi di recupero e conservazione a Pompei; il ministro Galletti ha 482 milioni per le energie rinnovabili; sempre il ministro Giannini ha 775 milioni dei due Pon Istruzione: potrebbe riqualificare le scuole meridionali e lottare contro la dispersione scolastica; il ministro Alfano ha 354 milioni del Pon Sicurezza: potrebbe digitalizzare gli atti giudiziari delle procure. Nel ciclo 2014-2020 nelle cinque regioni i programmi cofinanziati da Fse-Fesr varranno 44,6 miliardi e i piani FeaSr oltre 8 miliardi. In conclusione fino al 2020 il Sud avrà da spendere più di 70 miliardi. L’unica soluzione per usare bene i fondi UE è stata data nel volume L’altra globalizzazione, una nuova offerta produttiva nel Mediterraneo di Marco Canesi, docente di pianificazione territoriale al Politecnico di Milano. Per Canesi occorre affrontare il declino italiano partendo dalla debolezza dell’economia meridionale: un deficit commerciale – quasi tutto in prodotti industriali – che è quasi il 20% del suo Pil. Il Mezzogiorno ha bisogno di un bacino produttivo autrocentrato, esteso dal napoletano alla Sicilia. Potrebbe averlo purché, a livello macrourbanistico, si riconosca simultanea priorità a due interventi. Il primo intervento riguarda l’Alta capacità Napoli-Reggio Calabria: la nuova linea – proprio perché è Alta capacità e non Alta velocità – dovrebbe essere spina dorsale di tutto il territorio meridionale, in grado di assicurare quasi dovunque frequentazioni giornaliere. Per Canesi occorre un tracciato che attraversi i territori interni, in cui sono storicamente situati gli insediamenti più rilevanti, e non – come il governo sembra preferire – la costa tirrenica o, peggio, la costa ionica. Potenza, in particolare, appare un nodo ferroviario irrinunciabile. La sua posizione è strategica: consente connessioni in ogni direzione fra tutte le più importanti città meridionali; inoltre, con una nuova linea verso Foggia, offrirebbe l’opportunità di avere un collegamento strategico tra la direttrice adriatica e quella tirrenica.

Il secondo intervento riguarda, tout court, la creazione di tre nuove città policentriche. Basterebbe relativamente poco: un adeguato servizio ferroviario regionale che, in sinergia con l’Alta capacità, legasse in relazioni urbane (60 minuti) due gruppi di comuni, uno in Basilicata e Puglia (Potenza, Tricarico, Ferrandina, Matera, Altamura, Gravina, Genzano) e l’altro in Calabria (Cosenza, Rogliano, Serrastretta, Catanzaro, più gli insediamenti limitrofi). La terza città policentrica avrebbe il baricentro nel bipolo Reggio Calabria-Messina. Il costo sarebbe circa 25-30 miliardi di euro.

Ecco alcuni esempi più significativi: la linea Alta capacità tra Napoli e Reggio Calabria ammonterebbe intorno ai 20 miliardi di euro; il tracciato anulare della città policentrica apulolucana (peraltro, in parte già realizzato ma mai completato) non supererebbe il miliardo di euro, mentre il tracciato lineare della città calabrese sarebbe a costo zero (coincidendo con quello dell’Alta capacità). Secondo Canesi, il nuovo assetto territoriale aprirebbe una prospettiva industriale oggi impensabile. Grazie alla potenza delle economie di agglomerazione messe in gioco, le filiere produttive (prime fra tutte quelle distrettuali del made in Italy) potrebbero agevolmente superare la loro frammentazione, configurando articolate relazioni intersettoriali: vecchie e nuove attività si integrerebbero, costruendo un bacino produttivo aperto ai Paesi rivieraschi del Mediterraneo, in grado di offrire tutto ciò che occorra ad un loro appropriato sviluppo. Inoltre vi sarebbe una straordinaria economia esterna. Grazie al gigantismo navale e alle crescenti economie di scala con cui stanno facendo i conti le grandi compagnie di navigazione, i porti di Taranto, Gioia Tauro e Crotone – in coordinamento con Genova e Trieste – potrebbero diventare il nodo esclusivo dei flussi commerciali tra Oriente e Occidente e, quindi, sedi di nuove rilevanti attività manifatturiere. I porti diverrebero luoghi appetibili non solo per le attività indotte dalla movimentazione container (assemblaggio, imballaggio, etc…), ma anche per altre attività cui sia strategico l’accesso al mare. Si potrebbe creare nei retroporti un polo specializzato della meccanica strumentale pesante. Il Sud avrebbe finalmente una parte di quelle attività meccaniche senza le quali non potrebbe mai ambire ad uno sviluppo autenticamente autonomo.