La Cina è di gran lunga il leader mondiale nella produzione di calzature ed è anche tra i maggiori consumatori di scarpe al mondo con 3,65 miliardi di paia contro i 2,8 della Ue e i 2,3 degli Usa. La maggior parte delle calzature vendute nella Ue – oltre la metà nel 2013 – è prodotto in Cina. L’Unione europea, in termini di valore, è però il più grande mercato delle calzature nel mondo e, in termini di volume, il secondo più grande dopo l’Asia. La Cina produce anche cuoio ma non lo esporta in forma grezza semmai come semi lavorato (wet blue) di cui l’Italia e altri Paesi europei sono invece forti acquirenti (il 97% della pelle prodotta italiana ha origine da importazione estera di grezzo o wet blue). La pelle semilavorata arriva nelle concerie italiane e poi magari torna – finita o semilavorata – nei Paesi di provenienza. Secondo i dati della Fondazione Italia Cina, nel 2013 l’Italia ha esportato nell’Impero di mezzo «articoli in pelle e cuoio» per 1,1 miliardi, e «scarpe e accessori» per oltre 400 milioni.

Dalle scarpe alle borsette, dal grezzo al semilavorato, il mondo del cuoio è fortemente globalizzato sia per la necessità di materie prime, sia per l’utilizzo di manodopera a basso costo nei Paesi in via di sviluppo o di rapido sviluppo, sia per le diverse fasi di lavorazione del cuoio finito che in Italia ha le sue eccellenze. Ma anche qualche buco nero.

Da un punto di vista geografico, l’attività di concia è sviluppata principalmente in tre distretti che assieme coprono l’88,6% di tutta la produzione nazionale. Per ordine di importanza sono: Arzignano in Veneto, lungo la valle del Chiampo in provincia di Vicenza, Santa Croce in Toscana, tra le province di Pisa e Firenze, Solofra in Campania, tra Napoli e Avellino.

L’industria conciaria italiana è dominata da piccole imprese (molte delle quali internazionalizzate, dalla Serbia al Vietnam) alla ricerca di pelli a basso costo da ricollocare, lavorate, sul mercato mondiale. E’ un mercato complesso – in stretta relazione con quello della carne bovina – ma dove l’Italia è ben posizionata: i maggiori esportatori di pelli semilavorate sono Brasile, Usa e Ue. «La Ue – spiega un rapporto del dicembre scorso del Centro Nuovo Modello di Sviluppo e della Campagna Abiti Puliti di cui il manifesto ha già dato notizia – importa quasi il doppio di quanto esporta e il leader del settore è è l’Italia, con il 76% delle importazioni europee». Nel distretto di Santa Croce ad esempio, 240 concerie affiancate da oltre 500 laboratori terzisti contribuiscono al 70% di tutto il cuoio per suole prodotto in Europa e al 98% di quello prodotto in Italia.

Sono aziende medio piccole, spesso a conduzione famigliare. Il distretto impiega 12.700 persone, tra lavoratori alle dirette dipendenze delle imprese e assunti da agenzie interinali. I primi, racconta il dossier, rappresentano il 72% del totale, i secondi il 28%. «È nelle officine dei terzisti che si concentra il lavoro interinale… dove si registrano le situazioni di maggior sfruttamento lavorativo» in un settore dove il lavoro è cresciuto ma in forma sempre più precaria. Nel 2014 hanno trovato lavoro 4.650 nuovi addetti, ma solo 1.199 alle dipendenze delle aziende produttrici. E i contratti di lavoro interinale sono di vario tipo e persino di sole quattro ore, spesso con manodopera straniera, la più sindacalmente fragile. C’è dunque un’ombra diffusa sul mercato della pelle, sia esso in Cina o nei Paesi che lavorano in conto terzi, sia in Italia dove i grandi marchi di calzature firmate vendono in tutto il mondo. Un’ombra che cammina con le nostre scarpe.