Il semestre italiano di presidenza del Consiglio europeo si era aperto con un documento infarcito di richiami alla competitività. I problemi delle finanze pubbliche come base della crisi attuale, il privato come unica soluzione. La ricetta, seguendo la visione mercantilista, è quindi tagliare la spesa pubblica e lanciarsi in una gara senza regole a chi esporta di più. Un quadro concettuale che ribalta cause e conseguenze della crisi, dove la regolamentazione della finanza privata sembra passata di moda.

Se in Europa si continua a sottolineare come sia fondamentale un sistema finanziario che sostenga il rilancio di crescita e occupazione, le soluzioni passano in gran parte dall’inondare le banche di liquidità. Banche che però continuano a non prestare all’economia, in una forma moderna della trappola della liquidità postulata da Keynes nel secolo scorso: in un periodo di difficoltà, l’immissione di denaro si traduce in risparmi e non in investimenti e consumi. Oggi crescono le attività speculative, mentre famiglie e imprese sono strangolate dalla mancanza di accesso al credito. Un fenomeno che esaspera la crescita ipertrofica della finanza e il suo sempre più spinto distacco dai fondamentali di un’economia in crisi: la definizione stessa di una nuova bolla finanziaria.

Per questo occorre riportare la finanza a essere uno strumento al servizio delle attività economiche, contrastando quelle speculative. Da un lato alcune delle proposte avanzate da anni dalle reti della società civile sono finalmente approdate nell’agenda europea: una tassa sulle transazioni finanziarie, la separazione tra banche commerciali e di investimento, una severa regolamentazione del sistema bancario ombra, e altre ancora. Dall’altro i passi in avanti sono davvero minimi.

Sulla tassa sulle transazioni finanziarie, l’ultimo Ecofin a guida italiana si è chiuso con un sostanziale nulla di fatto, rimandando la partita alla presidenza lettone di inizio 2015. Peccato che la Lettonia, a differenza dell’Italia, non è tra i Paesi che hanno dichiarato di impegnarsi per la tassa. Se nulla o quasi è stato fatto in questi mesi, le speranze di vedere un’accelerazione nel prossimo futuro sono decisamente poche.
La separazione tra banche commerciali e di investimento e la questione delle banche too big to fail è un altro punto centrale per evitare il ripetersi di disastri come quelli degli ultimi anni e per reindirizzare l’attività bancaria verso un sostegno all’economia. La nuova Commissione Ue, nella persona del Commissario Hill, un ex lobbista ora responsabile degli affari finanziari, sembra provare ad affossare la Bank Structure Reform che dovrebbe occuparsi di tali questioni. A inizio dicembre il Comitato Economico del Parlamento ha pubblicato un comunicato molto duro, sostenendo che non è mai stato detto alla Commissione di ritirare la proposta. Anche in questo caso – come in diversi altri capitoli negoziali – non sembra che dal Consiglio a guida italiana siano arrivati risultati o prese di posizione memorabili.

L’attuale impostazione in ambito finanziario è evidenziata dai recenti stress test condotti dalla Bce, che hanno mostrato una maggiore fragilità delle banche italiane rispetto a quelle dell’Europa centrale. Peccato che tali test andassero a guardare nel dettaglio i prestiti erogati, ma non il rischio delle operazioni speculative. Le banche italiane, colpevoli di prestare di più all’economia reale, sono quindi inevitabilmente risultate in difficoltà rispetto a quelle di maggiori dimensioni di Germania, Francia o Inghilterra, spesso con i bilanci pieni di derivati e titoli potenzialmente tossici.

Pochi esempi per mostrare come l’intera agenda europea appare cucita su misura per i gruppi di maggiore dimensione e che continuano a dominare – non solo dal punto di vista finanziario – in Europa. Di fatto, l’unico punto su cui sembra che il governo italiano si sia speso durante la propria presidenza di turno è nel cercare di accelerare l’accordo di libero scambio tra Ue e Usa, il Ttip. Un negoziato soggetto a fortissime contestazioni, centrato sulla tutela dei diritti delle grandi imprese a scapito di quelli di cittadini, ambiente e lavoratori.

Sarebbero molte altre le critiche che si potrebbero muovere nel merito. L’Italia avrebbe avuto tutto da guadagnare nell’impostare la propria presidenza sulla regolamentazione finanziaria e su un cambio di paradigma in Europa. Prima ancora che nell’analisi dei singoli capitoli negoziali, è però proprio la visione di insieme e l’intero approccio a essere totalmente inadeguati. Difficile dire se al termine del semestre italiano il bicchiere sia mezzo pieno o mezzo vuoto, quando non si riesce a vedere nemmeno il bicchiere.