L’Oasi La Valle è sulle rive del lago Trasimeno a Magione, il più antico lago italiano, la sede è nel palazzo del vecchio Consorzio di bonifica. Quando arrivo, il cancello è sprangato, c’è un’aria di pace intorno e il lago si scorge in lontananza con le acque che brillano illuminate dal sole oltre una prateria. «Non è glaciale e vulcanico ma tettonico», come mi spiegherà più tardi Maddalena Chiappini della Cooperativa L’alzavola, arrivata ad accogliermi, che prende il nome da una piccola anatra invernale, però piuttosto energica, «all’improvviso si alza a razzo e spicca il volo», dice divertita di quest’animale imprevedibile ma tenacissimo. La storia del Trasimeno, da molti definito il mare dell’Umbria, non per motivi balneari come sembrerebbe, ma soprattutto perché il suo pesce è venduto in tutta la regione, è lunga e travagliata, dalla piana sconvolta dai terremoti mentre si formava l’Appennino, l’acqua arrivò qui in parte da una deviazione del Tevere ma anche dal Lago della Chiana che oggi non esiste più. È una stranezza della natura, diverso da tutti gli altri laghi italiani, perché non è profondo – sei metri al massimo al centro, in confronto ai 150 di Bolsena e ai 340 del lago di Garda – e non è bagnato da fiumi, «è un’acqua ferma senza ricambio, ed è soggetto a forti oscillazioni di livello», mi ricorda Maddalena nell’aula dove in genere vengono accolti i numerosi studenti in visita, oltre 6 mila l’anno, una delle principali attività della cooperativa insieme alla ricerca scientifica e al turismo, per far conoscere il Trasimeno anche come ambiente primitivo. Quest’aspetto dell’acqua paludosa però paradossalmente determina un ambiente unico, perché ha una ricchezza in biodiversità eccezionale.

LO STORICO DELL’ARTE CESARE BRANDI, ammaliato dall’armonica bellezza del paesaggio umbro, e dalle sue opere artistiche, lo definì liricamente «un velo d’acqua sopra un prato», per dire che è un ecosistema che si sviluppa in lunghezza, con le molte alghe, piante acquatiche, pesci come lucci, cavedani, la tinca, l’anguilla e la carpa, che fu introdotta dai romani. Nel dopoguerra questa zona diventò una meta ambita del turismo venatorio, perché in queste terre c’era abbondanza di cacciagione e si praticava la caccia in botte, il cacciatore stava coricato nel barilotto in mezzo all’acqua ma all’asciutto, e aspettava guardingo che arrivassero le anatre per sparare le sue micidiali fucilate. «È un lago molto amato dagli uccelli perché i pesci ci sono tutto l’anno», mi ricorda Maddalena, «d’inverno quando i laghi del Nord-Europa ghiacciano, iniziano le migrazioni, e tra il lago di Garda e il nostro scelgono il Trasimeno perché in quattro metri di profondità i pesci sono più cacciabili, fanno meno fatica». Però non tutti gli uccelli si cibano di pesci, solo gli ittiofagi, altri fitofagi mangiano le piante, mentre i filtratori si sfamano con i microorganismi che vivono nelle acque del lago, e dove sono meno profonde vive la cannuccia di palude. Gli uccelli che soggiornano nell’oasi, d’estate vanno in volo e tornano verso il Nord-Europa, ma altri lasciano dall’Africa tropicale e vengono a nidificare qui dopo 4000 chilometri di viaggio, proprio perchè in quel periodo hanno bisogno di molto cibo e possono cacciare più velocemente. Dalla fine degli anni ’70 proprio per quest’attività migratoria fu limitata la caccia, e divenne un’oasi di protezione faunistica, ma dal 1985 il lago Trasimeno è stato dichiarato Parco e ora si è trasformata in naturalistica, con divieto assoluto di attività venatoria.

DALL’AULA DEL VECCHIO CONSORZIO di bonifica usciamo all’aperto muniti di binocolo e attraversiamo il piazzale per raggiungere una zona dove c’è l’angolo delle farfalle, e vicino il giardino delle ninfee, con l’ultimo esemplare di ninfea bianca del Trasimeno quasi del tutto scomparso per la presenza delle nutrie, che qui vivono in tantissime. Più avanti, sopra il lago, la passerella in legno lunga mezzo chilometro, in questo periodo purtroppo chiusa perché di proprietà della Provincia, ma con l’aiuto del cannocchiale vedo un airone rosso (in questo periodo sta nidificando nel canneto) che ora volteggia nel cielo, Maddalena dice che vengono dalle savane africane, «devono mimetizzarsi, e hanno colori che vanno dal marrone al giallo».

Ci avviciniamo al primo capanno, dove è posizionato il primo osservatorio, e una volta aperte le piccole finestrelle, scorgo una parte di lago e aiutandomi con il binocolo vedo nitidissime le molte folaghe scure che nuotano nell’acqua davanti a me e un gabbiano reale posato sui legni della passerella. Invece il cri cri isterico che sento, un verso abbastanza sgraziato, è del cannaraccione, un uccello con il becco corto, giallo e sottile, però capace di fare un baccano fastidioso che non si capisce dove si sia nascosto. Esiste una convenzione internazionale che stabilisce che più di 20000 uccelli che svernano in un’oasi come accade qui, passandoci tutto l’inverno, è un luogo di importanza internazionale. Infatti, la cooperativa è legata all’Ispra, l’Istituto superiore per la ricerca ambientale, e attraverso gli inanellamenti con dei codici identificativi partecipa a una banca dati nazionale collegata a quella europea e internazionale. È un termometro ambientale, mi spiega Maddalena, un’attività nata nel Nord dell’Europa nell’800, iniziata per capire dove finissero le rondini in inverno, in pratica i volatili sono catturati con delle reti e fissato un anello numerato sulla zampa, in modo da poterlo riconoscere, «c’è un cannareccione che torna qui da 18 anni», dice, «è un uccello piccolo, che pesa 20 grammi, l’unico modo per proteggerlo è tutelare l’ambiente dove vive». Nel secondo osservatorio, in una parte di lago più paludosa, scorgo dalle lenti del binicolo e metto a fuoco una garzetta bianca, esile ed elegante, un piccolo airone, e una folaga che sta covando placida su un nido di paglia costruito sopra un tronco d’albero in mezzo all’acqua. La garzetta reca una livrea nuziale, un ciuffo che la rende attraente, perché gli uccelli in primavera si accoppiano e più sono sani, più il piumaggio è bello, più hanno possibilità di essere scelti. È un animale che in passato ha rischiato di estinguersi perché erano uccisi per essere imbalsamati, e il codino lo usavano per ornamento dei cappelli. Mentre guardo, scorgo ancora tre germani reali, filtrano l’acqua con il becco, mangiando i microrganismi, sulla staccionata in fondo un cormorano dopo aver nuotato nell’acqua ha allargato le ali per asciugarle al sole.

QUANDO MADDALENA E IO SIAMO SULLA VIA del ritorno ci aspetta nell’antico fienile Mario Muzzati, un altro socio della cooperativa, che ha catturato alcuni uccelli e adesso li inanellerà per me. Li tiene in custodia dentro piccole sacche di juta, e quando prende in mano il primo, dopo aver prima esaminato la testa del piccolo volatile sbuca dal pugno con la quale la tiene ferma. È una cannaiola, e dopo aver posato l’anello, lo misura e lo pesa, è esilissimo, fa solo 12 grammi. Mario mi spiega che è un migratore a lungo raggio, ma ha ancora poco grasso sul petto, perché «il grasso è il carburante per la migrazione» e il volo sarà lunghissimo, dovrà resistere al vento, alla pioggia, e al freddo. Se vorrà attraversare mari, laghi, e il deserto del Sahara, dovrà fare delle soste per rinforzare il grasso sottocutaneo, potenziare i muscoli pettorali, e sopravvivere in aria per andare finalmente a svernare nel Ghana, in Nigeria o nello Zambia, fino a sotto l’equatore.