Il Pigneto è una delle zone-movida che animano la città. Nel rione adiacente il centro storico, un’osteria chiusa da tempo venne rilevata nel 2003 da quattro amici residenti e trasformata in caffè/libreria, intitolando il luogo di ritrovo al mitologico ominide selvatico allocato nelle foreste himalaiane. Tra i fondatori un giovane in carrozzella, la cui vita è tutt’uno con lo Yeti. Vado a trovarlo al CTO della Garbatella, un reparto modello dove gli curano i postumi d’una caduta. Lui e la sua compagna indicano sorridendo un’ampia sala dove attenderlo.

Daniele ha viso affilato e occhi profondi: “nel 1991, a 24 anni, io ero un guzzista, una cosa diversa dal motociclista stereotipato: non spericolatezza e velocità, ma il gusto del viaggio, prendersi cura del mezzo meccanico, trovare il tuo centro, un po’ come si legge in Lo Zen e l’arte di manutenzione della motocicletta. All’epoca abitavo in una casa occupata, lì incontro un inglese con la Guzzi in panne: la sistemiamo e andiamo a fare un giro per provarla; all’uscita 17 del Raccordo anulare prendiamo una buca con ghiaia e… A Roma non c’era ancora una struttura così, i pazienti andavano al Nord o in Paesi esteri dove l’approccio alla disabilità era diverso. Fui ricoverato per 11 mesi a Coblenza sul Reno. Lì vigeva la cultura della resilienza: reagire ai traumi individuando risorse interiori per affrontare le difficoltà. Un discorso anche sociale, infatti lo Yeti è un locale vocato all’accoglienza integrata, referente popolare e di persone che vivono disagi non solo fisici”.

Daniele Lauri si muove agilmente, sorprendendo chi è gravato da abiti mentali troppo stretti. Lo Yeti –cooperativa sociale integrataLiberamente”- è per tutti, senza barriera alcuna, civiltà elementare per chi è in sedia a rotelle o per bimbi nei passeggini.

Senza lotta non c’è vita, e la lotta paga, meglio se in forma diretta: “grazie alla battaglia dei paraplegici di ritorno dall’Estero fu aperto questo reparto di Unità Spinale Unipolare, dove cioè si provvede alla persona in ogni bisogno; i mielolesi non si possono curare ovunque: nell’ospedale generico un’infezione alla vescica, e quindi ai reni, porta alla morte, come l’allettamento continuo e le piaghe da decubito… Venne il primario umanissimo dell’Unità Spinale di Heidelberg ad istruire il personale sanitario. Certo un reparto così specializzato è costoso…” Certo una società emancipata non si regola sottraendo spese nella cura per sanare i bilanci, dovrebbe anzi rammentare che il livello di civiltà si misura dall’attenzione ai più fragili, ma tant’è: “qui c’erano trentadue posti-letto, per il Lazio e tutto il Sud, anni fa li hanno ridotti a sedici, una cifra insufficiente per la stessa Capitale se pensi che ci sono trenta persone ogni milione di abitanti con incidenti alla colonna vertebrale; il personale è sotto organico, c’è il blocco delle assunzioni: stiamo regredendo e i romani vanno nuovamente altrove. Né conta chi ci sia in giunta: i tagli alla Sanità sono trasversali”.

S’è fatto tardi, incombe la notte, la nostra chiacchierata prosegue giorni dopo allo Yeti. I cui promotori non hanno il deserto alle spalle, non si crea per incanto un luogo di incontro, apertura, confronto, svago, rilassatezza, riflessione. Per dire, Lauri conobbe lo sfratto da Ponte Milvio, abitò periferie senz’anima, movimentò centri sociali autoorganizzati, conseguì la maturità classica al Tasso, studiò design e sociologia. Mentre la società volgeva al pensiero breve e individualista, Daniele maturava visioni critiche e costruttive, contaminando di energia i delusi, spronando all’azione intelligente, senza chiudersi nei ghetti dell’isolamento o delle tossicodipendenze. Prima e dopo l’incidente. Lo Yeti è un altro nodo nella rete d’una opzione alternativa, dove l’obiettivo non è l’arricchimento facile -“ci basta un reddito dignitoso”- ma rendere dialogica e vivibile la connessione fra segmenti sociali differenti. In un territorio complicato da speculazione, droghe, tensioni etniche. La comunicazione inesistente o astiosa necessita di mediazione sociale. Lo Yeti la fa. Quando il locale aprì nel 2003, “il Pigneto era solo una serranda chiusa”, rione proletario ma anche area di boss malavitosi (la preziosa esperienza del cinema Aquila -interrotta con la giunta Marino, ma i cittadini ne esigono la riapertura- è in uno spazio sequestrato alla banda della Magliana). Movida e gentrificazione vengono dopo, accompagnate da spaccio diffuso con la conseguente “richiesta massiva di più polizia identificando il nemico nel piccolo spacciatore: noi discutiamo con tutti, cerchiamo strade che non siano la pura e semplice militarizzazione. Non abbiamo risposte risolutive, ma almeno aiutiamo a distinguere fra apparenza e realtà, miserabili e profittatori, pusher immigrati e fornitori nostrani…”

Allo Yeti trovi gruppetti di anziani/e, studenti incollati al pc, ragazze allegre d’amore, artisti originali, immigrati pacifici, genitori contenti del fasciatoio, lavoratori che passano per la solita tazza omaggiando fraternità. Trovi iniziative attente alle esigenze d’ogni età o etnia: presentazioni di libri, film, mostre d’arte, gare sportive, spettacoli teatrali, feste, pranzi autogestiti in piazza… Un crogiolo che “crea conflitti, ma è nei conflitti che cresce la società”; se nei conflitti ci si parla è già un buon passo avanti, pur nel dibattito acceso, a volte basta una battuta a sfatare il quotidiano vomito razzista: “se informi che il Tribunale ha appena condannato gli italiani che manovrano lo spaccio, la faccia di chi odia i pusher cambia; però abbiamo anche dato un volantino in più lingue agli spacciatori: stai vendendo la merce della mafia, quelli che hanno ammazzato i tuoi fratelli a Rosarno; serve a stabilire un contatto per strada: ma tu, sotto casa di tua madre, andresti a vendere morte?... Per chi fa uso di droghe pesanti abbiamo il Progetto Sara sulla riduzione del danno (dal nome della sedicenne che l’inverno scorso comprò eroina al Pigneto per andare a morire al San Camillo), mentre ci battiamo per liberalizzare le droghe leggere col Pigneto social club… La nostra comunità è fatta di queste piccole cose, ma se mancano adeguate politiche urbane nelle Istituzioni, tutto si fa effimero. Andiamo nei vari assessorati proponendo attività, ci rispondono sempre che mancano soldi…”.

Infine una storia kafkiana che ha indignato l’universo mondo: “nel progetto del 2003 -preparato coi tecnici dell’Ufficio comunale per l’Handicap- ovviamente era prevista anche la rampa esterna; il progetto venne poi presentato al Municipio di zona, dal quale non giunse mai risposta. La facemmo ugualmente e dopo 14 anni, aprile 2017, il Municipio 5stelle ci contesta e sanziona (provocando ondate di mail solidali e proteste parlamentari); gli abbiamo detto che si può facilmente ovviare considerando l’opera ‘di interesse sociale’ ed acquisirla come ‘patrimonio municipale’: è la legge”. Ma i burocrati hanno rifiutato. Per salvare la rampa ora è in atto un tortuoso percorso condito di architetti, carte bollate, avvocati. Prevarrà l’applicazione di norme legali già esistenti, magari corroborata da banale senso logico?