«Perché siamo qui? L’elenco è lungo!». Studentessa di scienze politiche, Milijana Vasiljevic ha 23 anni e la parlantina facile. «Protestiamo contro la corruzione, l’incompetenza del governo, il nepotismo, la censura», spiega con foga mentre le amiche confermano con un cenno della testa. Partito da Studentski Trg, affollata piazza al centro di Belgrado, il corteo si dirige verso il Teatro nazionale. È un tardo pomeriggio di sabato e come accade ogni settimana dallo scorso 8 dicembre decine di migliaia di manifestanti attraversano il centro della capitale serba.

Ce l’hanno con Aleksandar Vucic, presidente della Serbia e leader del Partito del progresso (Sns, Srpska Napredna Stranka), il partito conservatore al potere dal 2012. Alcuni cartelli lo ritraggono come un «dittatore». Qualcuno chiede a gran voce le sue dimissioni. C’è chi chiede quelle del ministro dell’Interno Nebojša Stefanovic e della prima ministro, Ana Brnabic. Ma il vero obiettivo polemico è Vucic.

È IL SIMBOLO DI UN POTERE autoritario, repressivo, anti-democratico. «Sempre più controllo sulla società, sempre meno libertà», sintetizza Anja Jakic, anche lei studentessa universitaria. Già membro del Partito radicale ultra-nazionalista, poi ministro della Difesa e primo ministro, garante del percorso verso l’integrazione serba nell’Unione europea, il presidente Vucic ha stretto la presa sul potere. «È la versione locale di una tendenza ampia. È come Orbán in Ungheria e Salvini in Italia. Ma qui ci sono meno anticorpi». I manifestanti gli attribuiscono il clima di violenza politica nel Paese.

LA SCINTILLA che ha innescato le proteste risale al 23 novembre 2018. Nel corso di un corteo nella cittadina di Kruševac, uno dei leader del partito di opposizione di sinistra Levica Srbije, Borko Stefanovic, viene brutalmente picchiato da uomini mascherati.

Cominciano le manifestazioni. «Basta violenza politica», la parola d’ordine. «Chi protesta rivendica lo stato di diritto», spiega al manifesto Maja Bjeloš, ricercatrice a Belgrado per il Prague Security Studies Institute.

«Chiede che sia fatta piena luce sull’assalto a Borko Stefanovic, sull’omicidio di Oliver Ivanovic», politico serbo-kosovaro entrato in rotta di collisione con Vucic e ucciso nel gennaio 2018, «sull’attentato contro Milan Jovanovic», giornalista investigativo a cui è stata incendiata la casa.

Mentre il corteo si lascia alle spalle piazza della Repubblica, il corteo si infittisce. I numeri crescono anche a livello nazionale. «Belgrado ha dato l’esempio, ma ora ci sono manifestazioni in decine e decine di città. È un passaggio cruciale. Cresceremo fino alle dimissioni di Vucic», sostiene con eccessivo idealismo Nada Radovic, 33 anni. Se i manifestanti sono aumentati, è anche a causa della reazione del presidente, catalizzatrice di un malcontento diffuso, sottotraccia.

«Ha detto che anche se avessimo manifestato in 5 milioni non ci avrebbe dato retta. Non è stata una mossa intelligente», ammicca divertita Teodora Cicovacki mentre il corteo avanza. In testa, un ampio striscione recita «1 su 5 milioni», una replica divenuta segno di resistenza. Il silenzio mediatico ha accresciuto la rabbia.

«C’È UNA VERA CENSURA. Canali televisivi e giornali sono al soldo del governo. Il pluralismo non esiste», lamenta al manifesto Vladimir, 27 anni e un lavoro nell’informatica. «A noi rimangono solo i social media», aggiunge la compagna Nevena, 26 anni. Ma anche lì Vucic, già ministro dell’Informazione sotto Miloševic, si è organizzato.

Parlano di democrazia a rischio i movimenti e partiti che hanno dato vita all’Alleanza per la Serbia. Nata da un’iniziativa dell’ex sindaco di Belgrado ed esponente del Partito democratico Dragan Djilas, tiene insieme attori diversi. C’è la destra nazionalista, filo-russa e anti-europeista del partito Dveri, c’è il partito popolare, liberal-conservatore Narodna stranka di Vuk Jeremic, già ministro degli Esteri dal 2007 al 2012, c’è il partito social-democratico di Zoran Lutovac, c’è chi si batte per la difesa del Kosovo cuore della Serbia. E tanti altri, uniti solo dall’opposizione a Vucic e dalla richiesta di un governo di transizione di esperti. Politicamente, una proposta debole. Confusi gli sbocchi politici a cui ambisce invece la piazza.

VUCIC HA ACCENNATO ad elezioni anticipate. Nel 2014 e nel 2016 gli sono servite per assicurarsi prima il controllo sul partito, poi sul Paese.
L’opposizione vuole garanzie di imparzialità. «Serve un ambiente sano, senza intimidazioni, minacce. Chi critica il governo diventa un bersaglio mobile, viene marginalizzato, detenuto, ucciso. Non ci sono le condizioni per elezioni libere e trasparenti», nota Maja Bjeloš. Che riconosce la crescita del movimento di protesta, ma ne vede anche i limiti. Il rapporto tra manifestanti e partiti di opposizione è complicato: «Soprattutto a Belgrado, l’opposizione organizzata non può capitalizzare il malcontento perché è guardata con sospetto» dalla piazza. «In deficit di legittimità c’è l’intero sistema politico». ‘Né con il governo né con l’opposizione’ recitano alcuni cartelloni.

POI C’È IL NODO INTERNAZIONALE: in crisi di legittimità interna, Vucic gode ancora di legittimità esterna. «La più importante, in Serbia e nei Balcani», per Maja Bjeloš. A Bruxelles è visto come un alleato strategico, un garante. «È al potere perché si pensa possa ottenere ciò che l’Occidente vuole».
La Serbia nell’Unione europea. La «stabilizzazione» dei rapporti con il Kosovo. Un freno alle mire indipendentiste per la Republika Srpska in Bosnia Herzegovina. Vucic ha promesso molto, mantenuto poco, chiarito meno.

Punta sull’opacità e su doti camaleontiche. A Bruxelles promette riforme e il taglio del nodo gordiano del Kosovo, che poche settimane fa con l’avallo degli Stati uniti e del Regno unito ha deciso di dotarsi di un esercito proprio.

I rapporti con Washington rimangono comunque amichevoli. A Mosca Vucic assicura fratellanza. Il 17 gennaio ha accolto a Belgrado Vladimir Putin con una folla di 100.000 persone. Più di quante ce ne siano oggi, in questo corteo anti-governativo che punta dritto al Parlamento.

«I fan di Putin? Sono stati imbarcati sui bus del governo. Avrebbero perso il lavoro altrimenti», taglia corto Milijana Vasiljevic allungando il passo.