La città di Al-Hol dista appena qualche centinaio di metri dal campo. Chi arriva in auto la vede da lontano, una macchia di edifici interrompe l’ocra del deserto e fa solo intravedere il bianco e il grigio di migliaia di tende. Una conformazione innaturale che cresce di intensità via via che ci si avvicina all’ingresso del campo.

L’INSEDIAMENTO non è nuovo: era stato aperto nel 1991 dai rifugiati iracheni in fuga dalla prima guerra del Golfo. Si è moltiplicato negli ultimi tre anni con l’arrivo in massa delle famiglie dei miliziani dell’Isis catturati dalle Forze democratiche siriane (Sdf). Non è un campo rifugiati, è una città senza alcuna delle caratteristiche di una città. È un campo chiuso, un luogo di detenzione, uno Stato islamico in miniatura. È un buco nero, foraggiato dal voluto oblio internazionale.

Le 60mila persone che ci vivono sono solo in parte siriane. Ci sono qualche centinaio di miliziani, per il resto sono bambini e donne da 60 paesi del mondo, figli e mogli degli islamisti, ma anche membri attivi del progetto statuale di Daesh tra Siria e Iraq.

L’ingresso è presidiato dalle unità di autodifesa, ci sono le Ypg curde ma anche le Ybs di Shengal. Oltre la rete il campo di al-Hol si divide in sezioni diverse, da una parte gli stranieri (solo donne e bambini), dall’altra gli iracheni e i siriani (anche uomini). Proviamo a entrare nella prima. Due donne con il niqab nero stanno tornando alla loro tenda, ci avviciniamo e le salutiamo. Ricambiano, ripetono ossessivamente «Russia, Russia». Restano ferme per un po’, sorridono, salutano, se ne vanno.

IL VENTO FORTE ALZA LA SABBIA, i granelli si infilano negli occhi e bruciano. In uno spiazzo prima della distesa di tende ci sono dei gabbiotti, sono negozi per i residenti del campo. Sono chiusi, si vedono solo cartoni di patatine e immondizia. Un gruppo di bambini fa la guardia a una montagna di terra, come una trincea. Quando ci avviciniamo si coprono la testa con dei pezzi di cartone e iniziano a urlare in arabo e a tirare sassi.

Nella zona comune, dove sta l’ospedale, alcune donne puliscono l’ingresso. Dentro ci sono un paio di pazienti. A gestire la clinica è la Mezzaluna rossa curda.

Anche qui ci sono dei bambini, ci chiedono di scattargli delle foto. Non hanno più di sette, otto anni, in bocca una sigaretta. Si atteggiano da duri, si mettono in posa: «Siamo di Salahaddin». Sono iracheni, come la metà dei 60mila di al-Hol. Una donna si avvicina, parlotta a bassa voce in arabo, ci indica. L’impatto è impressionante: un non luogo senza soluzione di continuità, casa a 60mila persone di cui 32mila bambini, qualche ong internazionale e il peso insopportabile della gestione sulle spalle dell’Amministrazione autonoma del nord-est della Siria, il sistema di confederalismo democratico nato nel Rojava dopo il 2011. Ma c’è anche l’altra faccia, «l’autogestione»: dentro al-Hol si sono ricreate le stesse dinamiche gerarchiche che hanno tenuto in piedi per anni la macchina statuale di Daesh.

CI SONO REGOLE e ci sono violenze: omicidi, aggressioni, indottrinamento dei più piccoli, contrabbando di telefoni e fughe. Pochi giorni prima a raccontarcelo era l’Autonomia di Shengal, in Iraq: membri dello Stato islamico riescono a scappare e a tornare dove si è compiuto il più brutale dei massacri, a dare vita alle ennesime cellule dormienti contro cui continuano a svolgersi le operazioni delle Ypg.

Secondo il Rojava Information Center, solo a maggio si sono registrati 42 attacchi con esplosivi e armi automatiche di cellule islamiste nel nord-est siriano (13 morti e 40 feriti), 30 di questi rivendicati dall’Isis. La metà ha preso di mira i checkpoint delle Sdf e delle Asaysh, le forze di sicurezza interna. In alcuni villaggi intorno Deir Ezzor sono comparsi poster che inneggiano a Daesh. L’Isis c’è ancora. «Alcuni sono scappati nascondendosi dentro i container dell’acqua», ci dice Hamrin Hassan, l’amministratrice di al-Hol. «È il campo più pericoloso. Quando i residenti erano pochi, era gestibile. Dopo la liberazione di Baghouz (città del nord-est siriano, strappata dalle Sdf all’Isis nel marzo 2019, ndr), le famiglie si sono moltiplicate. Ora qui ci sono 32mila bambini. Gli stranieri sono 8.370, in tutto 2.477 famiglie». Poche ore prima, a Qamishlo, in una conferenza stampa nella sede del Dipartimento degli affari internazionali dell’Autonomia, una delegazione governativa olandese si riportava a casa una donna, i suoi due figli e un orfano, come bastasse.

«LA SITUAZIONE È COMPLESSA: ci sono omicidi, vendette, roghi di tende. Hanno bisogno di tutto, ma non riusciamo a fornirlo. Qui lavorano 32 organizzazioni internazionali ma dagli Stati non arriva niente. Dovremmo cambiare le tende ogni sei mesi, ma è impossibile. Abbiamo tre cliniche, insufficienti: fanno solo pronto soccorso. I casi gravi vengono portati all’ospedale di Hasakah e alcuni sono riusciti a scappare da là».

E poi mancano le cucine, mancano le scuole, manca acqua pulita e cibo a sufficienza. La maggior parte dei bambini non studia, non sanno nemmeno leggere. «Studiano» solo l’ideologia di Daesh, ripetuta e inculcata ogni giorno, l’unica educazione che ricevono dalle madri. Per i ragazzini dai 12 anni in su, un centinaio, spiega Hassan, è previsto «un percorso di deradicalizzazione», ma è poco ed è tardi.

LO DIMOSTRANO i cinque omicidi commessi a maggio (dopo i 16 tra marzo e aprile e i 29 di gennaio e febbraio) e le ultime operazione compiute nel campo. Le forze curde dell’Asaysh sono state impegnate negli ultimi due mesi in campagne di pulizia e in 150 arresti di iracheni e siriani e la situazione è in parte migliorata. Nel senso che ci si ammazza di meno, ma ci si ammazza comunque.

«Il problema – continua Hassan – è che la loro mentalità non è cambiata. Quei pochi che si sono davvero deradicalizzati non lo dicono per paura di vendette. Ad al-Hol si sono riorganizzati, hanno una loro gerarchia interna. La maggior parte di queste donne erano ingranaggi attivi nello Stato islamico, nella polizia morale, nell’addestramento e nel reclutamento, anche se a noi continuano a dire che sono solo delle civili, che sono innocenti, di aver solo seguito i mariti o di aver raggiunto la Siria dall’Europa per poter praticare liberamente l’islam».

Alcune si sono allontanate dal giogo di Daesh: hanno iniziato a lavorare come infermiere nelle cliniche o fanno le pulizie, qualcuna fa la sarta. Altre ancora, invece, non si nascondono e aggrediscono il personale del campo, tirano sassi, imprecano, li accusano di essere degli infedeli.

«Questo campo è una responsabilità internazionale, non solo nostra – conclude Hassan – I paesi di origine devono rimpatriare queste persone. Vanno deradicalizzati e rimpatriati». Ma – con ong internazionali che accusano il Rojava di detenzioni senza processo, pestaggi e punizione collettiva – i numeri dei rimpatri sono bassissimi, paesi come la Gran Bretagna hanno optato per la via più facile: togliere la cittadinanza ai propri islamisti. Secondo l’amministrazione, dei 2.500 iracheni che Baghdad si era impegnato a riprendere, ne sono stati portati via solo 400. Novantaquattro famiglie che hanno lasciato al-Hol a fine maggio a bordo di decine di autobus. Sono state condotte nel campo di Jadah, vicino Qayara.

Intanto al-Hol continua a essere quel che è da anni, un limbo miserabile che nutre una nuova generazione di fanatici. Senza scuola, senza libri, senza gioco, con poca acqua pulita, tra tende che il caldo rende un inferno in scala. L’unico «svago» è imitare i padri e le madri, mimare decapitazioni con le dita, invocare Daesh e dirsi, farsi Daesh.