L’anno è il 1968, momento di grandi rivolgimenti. E in quel momento, a Rimini, anzi 6 miglia al largo di Rimini, in acque internazionali, l’ingegner Giorgio Rosa aveva concretizzato la sua stravaganza; un’isola, anzi una piattaforma, che si era autoproclamata stato indipendente. L’avevano costruita, dopo molti anni di ragionamenti, lui e Maurizio Orlandini, suo grande amico e gran bevitore. Ora Sydney Sibilia ne ha tratto un film, su Netflix.

DA SUBITO bisogna sgomberare gli equivoci, al di là del dato di fondo, la ricostruzione che viene fatta dell’episodio autentico è pura fiction. Basti dire che Rosa era già da tempo sposato con Gabriella, e un’infinità di altri dati narrati sono, come dire, un po’ romanzati. E questo va bene, il cinema, di fiction, mica deve ricalcare la realtà. E allora ben venga questa ricostruzione «farlocca» che ci offre la possibilità di immergerci in un periodo storico preciso (con tanto di canzoni a sottolineare strizzando l’occhio). Ecco allora che un naufrago, un disertore dell’esercito tedesco, una ragazzotta gaudente e incinta, oltre ai nostri due visionari, sono gli artefici dell’iniziativa. Che viene ufficializzata proprio il primo maggio 1968. Un paio di giorni dopo viene occupata la Sorbona a Parigi, con tutto quel che ne conseguirà. Ma non è questo il problema dei nostri, se non alla lontana.

Giorgio è semplicemente un rompicoglioni, di quelli ai quali le regole stanno strette, è creativo, i divieti non gli piacciono e vorrebbe fare di testa sua. Lo aveva già fatto aderendo alla Repubblica di Salò, ma questa è una storia vecchia che potrebbe portare fuori strada. Nel film è una sorta di visionario utopista, capace di estenuanti attese davanti alla portineria del Consiglio d’Europa, unico referente autorizzato a decidere sulla controversia.

Il dato vero è che su quella piattaforma c’era turismo (lo confermano gli operatori riminesi), era un’idea, una trovata come tante del «divertimentificio romagnolo», questa volta ammantato da una sventagliata di idea libertaria. Curioso che di questa vicenda si parli più in tempi recenti che all’epoca, quando era vista come poco più che una goliardata. E Sibilia non si discosta molto da questa visione. All’inizio presenta i nostri eroi per quel che sono, dei patacca, poi finge di crederci tra un Cynar e una canzone di Vianello, salvo crollare miseramente quando decide di affrontare il grottesco del potere. I politici dell’epoca sono meno che macchiette, parodie malriuscite, che sviliscono tutto quel che succede. Che non è poco, visto che c’è l’Onu, il Consiglio d’Europa, vengono fatte pressioni, interviene la marina, viene fatta saltare la piattaforma con l’esplosivo …

ALLA FINE L’isola delle rose risulta un racconto squinternato, che non ha fulcro, indeciso se puntare sul grottesco o sulla ricostruzione del reale, si affida ai suoi interpreti, Elio Germano, Matilde De Angelis e ahinoi Fabrizio Bentivoglio e Luca Zingaretti, tutti trascinati in un’operazione alla lunga imbarazzante nel suo essere svaporata.

Un peccato visti i tanti talenti coinvolti nell’operazione e una storia che avrebbe meritato ben altro approccio, ma, forse, la lettura che ne viene data è ancora troppo vicina per essere storica e troppo lontana per essere credibile. Così suona come un’epigrafe il Sole spento cantato da Caterina Caselli nei titoli di coda, un sole di indipendenza che forse non era mai neanche sorto, che ormai non scaldava più la riviera romagnola, e soprattutto quel sole che sembrava presagire un avvenire e che invece si è spento anzitempo.