Quando Claude Monet finiva preda di uno dei suoi tempestosi scatti d’ira, c’era ben poco da fare. Si rinchiudeva nell’atelier, resistendo in quell’isolamento volontario anche due giorni di seguito. Solo due cose lo potevano tirare fuori da quel rifugio rabbioso: il brodo caldo che la moglie Alice gli offriva, costringendolo a socchiudere la porta e l’annuncio che i sementi ordinati erano in arrivo. Bulbi di papaveri, anemoni bianche, tulipani, soprattutto ninfee, «novità» che aveva scoperto all’Esposizione universale parigina del 1889.
Di fronte a questo annuncio, Monet lasciava il suo eremo, tornava in sé e chiamava a raccolta la sua numerosa famiglia. Ognuno doveva impegnarsi per favorire l’acclimatazione delle ninfee in quel di Giverny. Stare con le mani in mano era impossibile. Il ritratto che ne fa il giornalista e critico Octave Mirbeau è quello di un uomo con la pelle bruciacchiata dal sole e le mani sempre nere di terra.

L’umiltà della primula

Claude Monet aveva comprato la proprietà di Giverny, un paese normanno a circa settanta chilometri da Parigi, quando la sua situazione finanziaria, sempre precarissima, aveva cominciato a divenire più solida. Nel 1883 vi si era stabilito definitivamente, per rimanerci fino alla morte, avvenuta nel 1926. Visse quattro decenni con la tavolozza in mano e occupandosi ossessivamente di fiori. Ormai quasi cieco, negli ultimi anni cupo e prostrato dal dolore per la scomparsa della moglie Alice, appare in una fotografia, seduto su una panchina del suo parco, con occhiali scuri a velare uno sguardo opaco.
All’inizio, la permanenza a Giverny fu una scelta dettata da necessità: l’artista dovette allontanarsi dalla precedente casa per problemi economici. Prese in affitto – solo successivamente lo acquistò – quel casolare un po’ dimesso, non grandissimo e con un modesto orto a circondarlo. Presto, l’orticello senza pretese subì la sua prima metamorfosi: si trasformò in un magnifico Clos Normand, un tripudio di aiuole fiorite dove si mescolavano specie indigene con piante esotiche. Su tutti quegli «abitanti», svettano iris, tulipani e nasturzi. Ma ci sono anche le semplici campanule e le umilissime primule. Vicino alle finestre della sua camera, la preferenza va alla rosa mermaid, che sboccia a giugno e resiste fino ai primi freddi. Monet diffidava di un solo colore: il bianco. Era capace di discutere per ore con i suoi vivaisti di fiducia per ottenere varietà floreali screziate, cromatismi vividi al posto di un candore ambiguo. Ibriderà anche le ninfee, virandole verso il rosa. In fondo, non era giunto a Giverny da dilettante: era già un disinvolto giardiniere, essendosi impegnato nell’arte coltivazione in tutte le sue case. E possedeva una invidiabile biblioteca di botanica.
Fra i primi interventi per chiamare a sé il paesaggio,sradicò il frutteto della proprietà e piantò alcuni ciliegi giapponesi. L’omaggio è all’amore incondizionato che nutriva per quella cultura lontana. Era un amore sopraggiunto tardivamente: solo nel 1871 Monet aveva conosciuto quell’arte in Olanda, unica nazione europea ad avere scambi commerciali con il Sol Levante. Da allora, però, non smise mai di arricchire la sua collezione di stampe di maestri dell’ukiyo-e, arrivando a più di duecentocinquanta pezzi, molti dei quali sono ancora esposti nell’abitazione di Giverny.
Successivamente, si dedicò alla creazione di un giardino acquatico, con boschetti di bambù e salici a delimitarne i confini e nel 1895 rinverdì la passione giapponese con la costruzione del celebre ponticello verde ricoperto di glicini viola, lo stesso che ritroviamo in molti dipinti (lo immortalò almeno 45 volte, inseguendo la mutevolezza della luce e delle stagioni). Se nei primi dieci anni di residenza, Monet continuò a viaggiare e conservò intatto l’interesse per altri soggetti, piano piano Giverny mise fuori gioco il mondo intero. Si trasformò in un universo di luce e colori, l’unico che valesse la pena di fissare sulle tele. A prendere forma nei suoi quadri saranno anche i dintorni della campagna, come dimostrano le celebri serie dei covoni di fieno. Ma, verso la fine, ci saranno solo le ninfee, una sinfonia cromatica mozzafiato allestita da un direttore d’orchestra in grado di cogliere l’evanescenza della bruma e gli argentei guizzi del sole sull’acqua. «Ho dipinto infinite ninfee – scriveva – cambiando sempre punto di osservazione. L’effetto muta incessantemente, non soltanto da una stagione all’altra, ma anche da un istante all’altro». I pannelli dove sono riprodotte in grande formato saranno offerti in dono alla Francia tramite l’amico politico Clemenceau: sigilleranno la firma dell’armistizio del 1918 e oggi sono custoditi all’Orangerie di Parigi. Nonostante non vedesse quasi più, Monet non abbandonò mai le amate ninfee e continuò a rappresentarle fino al 1925, dando colpi di pennello sempre più sfatti e disintegrati.
Gli amici che si recavano in pellegrinaggio nella sua tenuta, raccontano di un uomo febbrile, che usciva alle tre di notte per passeggiare lungo le rive dello stagno, attento a cogliere i primi segni dell’albeggiare. Lo ricordano anche fermo sotto la pioggia e il vento, per ore, in sedute di pittura che gli procureranno l’afflizione eterna dei reumatismi.
Giverny conquistò un posto speciale. Monet lo chiamava «il suo posto delle fate» e, con il passare degli anni, quel giardino si trasformò in una vera ragione di vita. Anche in viaggio, il pittore non mancava mai di mandare per lettera istruzioni per la «giusta» coltivazione delle sue piante («mettete a terra le peonie, ma proteggetele dal gelo e dal sole»). In molti considerano oggi quel parco la più grande opera impressionista mai realizzata.

Un pittore buono a nulla

Monet con Alice Hoschedé (la seconda compagna), i figli della prima moglie Camille e quelli di lei (ben sei), avuti dal marito collezionista che salvò l’artista non poche volte dalla fame, si dedicò al parco con tutto se stesso. Ingaggiò svariati giardinieri, numerosi assistenti e, con il suo tipico fare dispotico, obbligò tutti i famigliari a interessarsene. «Sono un buono a nulla, se non fosse per il giardinaggio e la pittura», borbottava accoccolandosi sotto i salici piangenti intorno allo stagno. E spesso bruciava le opere di cui non era soddisfatto, «tanto quando sarò morto nessuno lo farà al posto mio», diceva.
Il suo arrivo a Giverny sconvolse anche la tranquillità quotidiana del villaggio. Quando Monet, per allargare lo stagno, fece deviare un braccio del fiume Epte ci fu una sollevazione popolare. Dovette intervenire il prefetto e fu necessaria una campagna stampa favorevole per sedare gli animi. Poi, le polermiche si stemperarono. E, alla fine, la presenza di quel pittore così stravagante, un po’ orso, ma pronto a elargire consigli sulla tavolozza a tutti gli artisti che passassero nei paraggi, venne accettata.
Da quel momento, Giverny perse per sempre la sua sonnecchiosa serenità e, al suo posto, sopraggiunse la fama mondiale. D’altronde, un secolo prima delle frotte di turisti che oggi invadono il borgo normanno, camminarono su e giù per quelle stesse vie maestri come Pissarro, Caillebotte (artista-botanico, scambiava consigli con Monet sulle specie più rare), Sisley, Cézanne, Rodin, Renoir, Berthe Morisot…