A più di 170 anni dalla morte, avvenuta in circostanze non del tutto chiarite, Edgar Allan Poe continua a godere di una vivacissima esistenza postuma. Né ci si aspetterebbe altrimenti da un autore che nelle sue opere ha esplorato con assidua temerarietà i territori liminali tra la vita e la morte, affondando la penna nei recessi più arcani della psiche. Troppo a lungo, però, il fascino esercitato dalla sua figura nell’immaginario popolare si è esaurito nel cliché del poète maudit, lo scrittore sregolato e mentalmente instabile, vittima di alcol e droghe, incapace di imbrigliare la sua forza poetica in uno sforzo coerente.

Ugo Rubeo, nel suo Genio in bilico Testo, contesto e intertesto in E. A. Poe (Mimesis, pp. 204, € 18,00) riesce a portare alla luce – con rigore scientifico sostenuto da grande verve affabulatoria – tratti meno noti della poetica di un genio eclettico, provocatorio, esplosivo: dai racconti alla poesia, dal romanzo alla saggistica, dalla critica letteraria al giornalismo. Un genio, quello di Poe, che il titolo del libro vuole «in bilico»: tra gli alti e bassi di una professione, quella del littérateur, ancora non del tutto riconosciuta nell’America della prima metà dell’Ottocento; tra la tendenza a una rischiosa istintività e l’esasperazione del «raziocinio»; tra una formazione di stampo romantico e una vocazione scientifica molto in anticipo sui tempi.

Già dalla produzione poetica degli esordi emerge il gusto per la provocazione di un autore che, nella prefazione alla raccolta Tamerlano riferisce di aver scritto la maggior parte delle poesie prima di aver compiuto quattordici anni. La successiva scoperta della narrativa segna una tappa importante nella formazione artistica di Poe e si traduce nell’intuizione di aggiungere alle grandi categorie dell’orrore e del terrore su cui si basa la tradizione gotica inglese «un nuovo ingrediente, riconoscibilmente americano, qual è l’elemento fantastico» – elemento essenziale anche quando ben celato tra le pieghe di una cornice realistica, come avviene nella Narrative of Arthur Gordon Pym, capace di beffare i primissimi lettori che scambiarono il romanzo per un’autentica relazione di viaggio.

Lo studio di Rubeo riserva inoltre ampio spazio alle decine di articoli e recensioni cui Poe mise mano nel corso della sua lunga attività di giornalista e di critico, durante la quale ebbe modo di farsi diversi nemici tra i letterati più in vista del tempo, da Emerson a Longfellow a Margaret Fuller. Correda il libro un’appendice dedicata a una selezione delle traduzioni italiane dei testi di Poe, utile per ricostruire gusti e tendenze dell’editoria a partire dalla seconda metà dell’Ottocento.

Oltre ai classici profili del maestro dell’orrore, dell’iniziatore della detective fiction e del giornalista sferzante, a venir fuori è il ritratto – meno noto – di un intellettuale militante, attento alle dinamiche del mercato editoriale e dotato di una forte passione civile. Nel capitolo dedicato alla «svolta americana», Rubeo dimostra come Poe impieghi le immagini di corpi dotati di vita artificiale come «metafora di un body politic squassato e fuori di sesto» qual è quello statunitense: tanto la storia del soldato valoroso fatto a pezzi dagli indiani e letteralmente «riassemblato» ogni mattina dal servitore nero («The Man That Was Used Up»), quanto la mummia parlante che istruisce un gruppo di eminenti americani sui pericoli della democrazia jacksoniana («Some Words with a Mummy») denunciano «l’aridità morale di uno stato democratico votato a una politica del genocidio».

Al contempo, la minuziosa dissezione di una poesia come Il corvo, operata sul tavolo anatomico della celebre «Filosofia della composizione», fa da contraltare alla visionarietà semi-profetica di Eureka, il «poema in prosa» sulle origini del cosmo scritto da Poe al culmine di un percorso poetico segnato da un’ambivalenza programmatica «tra le opposte tensioni che lacerano la dimensione interiore dell’individuo» – un viaggio che il libro di Rubeo ci invita a rileggere come tentativo sofferto e insistito di superare i limiti della logica binaria per approdare alla modernità