Come era prevedibile, la ricorrenza del cinquantenario del Sessantotto ha già riempito gli scaffali delle librerie. Molta memorialistica, numerose ristampe, nuove edizioni; e qualche studio originale. È ancora presto per tirare le somme, ma risulta già evidente la riproposizione di schemi interpretativi ormai consolidati e spesso figli delle polemiche che hanno scandito gli ultimi decennali. La memoria del Sessantotto rimane un campo aperto e conflittuale, sebbene depotenziato dalla crisi complessiva che ha investito l’eredità dei long sixties a tutti i livelli.

IN UN BEL LIBRO del 2008 (Le Moment 68, Seuil) la storica Michelle Zancarini-Fournel ha illustrato i passaggi di questa «storia contestata», mettendo in luce la parabola del Sessantotto nella memoria pubblica francese: dalla «vittoria culturale» della generazione delle barricate alla demonizzazione, che ha assunto le sembianze di un processo ai soixante-huitards. Si inseriscono nella primissima stagione, quella delle razioni «a caldo», i due articoli di analisi pubblicati da Edgar Morin su Le Monde tra maggio e giugno 1968 e successivamente raccolti nel volume collettaneo Mai 68. La Brèche, nel quale comparivano anche contributi di Cornelius Castoriadis e Claude Lefort.

Morin sarebbe tornato a scrivere del Sessantotto in occasione del primo decennale e nuovamente nel 1986 sulla rivista Pouvoirs. Entrambi i testi sono stati integrati nelle successive edizioni e ora tradotti in italiano da Raffaello Cortina Editore: Maggio 68. La Breccia, a cura di Francesco Bellusci (pp. 124, euro 11).
Nella prefazione, datata gennaio 2018, Morin ricorda i mesi trascorsi a Nanterre – dove era stato chiamato a sostituire per un breve periodo Henri Lefebvre –, le visite a Jussieu, alla Sorbona, nel cuore della protesta parigina. «Diversamente dai trotzkisti, dai maoisti, ecc, che pensavano che stesse per cominciare una rivoluzione – commenta – noi pensavamo che si trattasse di una breccia. Qualcosa che stava per affermarsi come una breccia al di sotto della linea di galleggiamento della civiltà borghese occidentale».

LA TESI DI FONDO, rimasta invariata nel tempo, è che l’anima del movimento fosse, in sostanza, «sovra e infra-politica». Il taglio interpretativo generazionale – l’idea di una «lutte de classe d’âge» di carattere internazionale – sarebbe stato avvalorato dagli eventi degli anni Settanta, quando «l’ideologia che è stata sovraimpressa sul maggio ’68 si è dissolta» sotto i colpi dei nouveaux philosophes, della debolezza del comunismo globale, degli effetti della crisi economica e delle sue conseguenze politiche. Del Sessantotto si sarebbe conservato invece il suo spirito, a tal punto da considerarlo una vera e propria svolta antropologica, una «liberazione dei costumi» rimasta viva nel nuovo femminismo.

MORIN RIGETTA quindi la tesi del ’68 come puro e semplice adattamento alla modernizzazione neocapitalistica. Leggendo i testi nella loro successione storica è possibile rintracciare alcune oscillazioni nell’analisi e ricostruire le tappe della sua evoluzione. Nei primi due articoli, infatti, sembra prevalere l’esigenza polemica nei confronti di due modelli interpretativi: quello di Raymond Aron e di parte dell’establishment, che riduce la protesta a un problema di anacronismo della struttura universitaria, e quella dei «gruppuscoli» dell’estrema sinistra. Per Morin, il ’68 sarebbe nato invece da un’elettrolisi, a partire da due poli estremi: da una parte sì l’inadeguatezza dell’università rispetto alla pressione demografica, ma dall’altra il rifiuto degli studenti verso un sistema modellato sulle carriere tecnico-burocratiche.

Il filosofo-osservatore descrive la lotta sulle barricate come un «gioco», anche se ad altro rischio, che avrebbe permesso a una generazione di compiere un ingresso alternativo nella società adulta. I gruppi rivoluzionari non rappresentano per lui che un’eccedenza, un di più, ma strategico perché permette la fraternizzazione tra studenti e operai, iscrivendo così il movimento nell’asse rivoluzionario della storia francese. L’apporto dell’estrema sinistra diventa invece negativo nella fase discendente del movimento, cioè quando «le parole “rivoluzione” e “classe operaia” ridiventano parole mana» e la crisi viene (rapidamente) riassorbita dal potere.

NEL SAGGIO del Settantotto Morin ha approfondito il nodo dell’eredità di quel gauchisme che ha frantumato definitivamente il modello del maschio bianco, adulto e borghese. A suo giudizio, gli anni Settanti hanno visto l’emergere di una «dialettica progressiva-regressiva della cultura di sinistra»: avanzamento sul piano dei diritti, ma crisi della coscienza di classe. Come arriverà a scrivere nel 1986, il ’68 sarebbe stato dunque il primo stadio di una rottura che si è manifestata definitivamente solamente tra il 1973 e il 1978. Sia chiaro che Morin rigetta la tesi di chi imputa al Maggio di essere la matrice dell’«individualismo edonistico» dell’età neoliberale; una interpretazione, quest’ultima, diventata mainstream negli ultimi vent’anni. Rimane aperto ancora oggi invece il problema del rapporto tra protesta e modernizzazione. Come risulta anche dalla storiografia più recente, è evidente che il Sessantotto non è riducibile solamente al gauchisme e che il rapporto con la trasformazione sia stato complesso e contraddittorio. Nello stesso tempo, però, è ormai chiaro che la scissione tra la natura politica e quella socio-culturale del Sessantotto è stata funzionale a chi intendeva spezzare il legame tra la protesta e la storia del movimento operaio, operando così una forzatura interpretativa e, soprattutto, politica.