Il cinema di Andrea Segre oscilla tra il racconto di generazioni di donne e uomini che per diversi e drammatici motivi sono stati costretti a lasciarsi alle spalle le proprie origini, alla ricerca di un riparo in paesi che poi si sono rivelati tutt’altro che ospitali, e la narrazione di una storia che gli è prossima, che riguarda le sue terre, che riporta alla luce un passato doloroso e, al tempo stesso, fiero. Due sentieri che non sono affatto rette parallele destinate a non incrociarsi mai. In tutti i suoi film, infatti, Segre riflette sulla condizione umana, sull’essere sottoposti all’imprevedibilità degli eventi (e sull’essere pronti a tutto), sul tortuoso percorso (talvolta impraticabile) che dovrebbe portare alla ricostruzione di esistenze andate in frantumi.

«PO», il nuovo documentario scritto insieme a Gian Antonio Stella, non si sottrae a questo modo di procedere, a questo tenere insieme ciò che ti fa scappare e ciò a cui sei legato, ciò che rifuggi e ciò che, nonostante tutto, conservi con orgoglio. Il film è un ulteriore ritorno al passato, a un periodo preciso che ebbe inizio il 14 novembre 1951, il giorno nel quale cedette l’argine sinistro del Po, con l’acqua e il fango a travolgere le terre del Polesine. Una vicenda lontana, custodita oramai nella memoria di pochi, di coloro che sopravvissero, dei bambini e ragazzi che settant’anni dopo sono ancora in grado di elaborare una testimonianza non solo dell’improvviso evento catastrofico ma anche del contesto, della povertà dei tanti al cospetto della ricchezza dei pochi proprietari. Po non è solo immagini di repertorio dell’Archivio Luce e interviste, è la ricomposizione di un quadro che spesso si tende a dimenticare, a nascondere sotto il tappeto della retorica, dell’Italia che nel dopoguerra pareva un treno in corsa destinato a soddisfare le moltitudini un tempo umiliate e offese dal conflitto mondiale e ora pronte al riscatto e al progresso. In realtà, prima che il fiume ricordasse all’uomo la terrificante sublime potenza della natura, la condizione umana continuava a essere umiliata e offesa. «C’era tanta miseria. Perché quei quattro signori che erano ricchi, davano lavoro ma senza regola, senza niente. Lavoravi per mangiare e basta. E dovevi tacere», dice una delle donne chiamate a raccontare quegli anni. La condizione umana, appunto, che non è da intendersi come un destino, come se dall’alto qualcuno avesse davvero scritto il fluire di esistenze inermi.

SONO FERITE ancora aperte, quelle dei testimoni, di chi ha vissuto la miseria e poi ha visto morire i propri cari, trascinati da un fiume senza più direzione. L’alluvione portò via tutto a chi aveva già poco, eppure «l’acqua è un legame per sempre». La rivendicazione di un doppio sentimento verso il grande fiume, tra il «bel guardare, la mattina quando mi sveglio e la sera prima di andare in casa ad accendere il camino per scaldarmi» e «il vedere queste acque tumultuose», che poi si placavano oscurando le tragedie.