Dal 12 aprile al 12 maggio, Il Centre Pompidou di Parigi ha celebrato la Black wave Jugoslava proiettando i ventidue film del suo principale protagonista, Zelimir Zilnik insieme a un’antologia di cinque autori: Dusan Makavejev, Aleksandar Petrovic, Kokan Rakonjac, e Zivojin Pavlovic, Ljubisa Kozomara e Gordan Mihic.
Zelimir Zilnik ricevette l’Orso d’oro al festival di Berlino del 1969 con il suo primo lungometraggio. Opere giovanili (Rani radovi) non era un film perfetto, ma rappresentava esattamente lo spirito della rivoluzione che aveva scosso l’Europa l’anno prima. Era idealista senza essere ingenuo. Vivace, giovane, libertario, surreale. Rimproverava al mondo di non essere abbastanza rivoluzionario. E al linguaggio rivoluzionario di non essere abbastanza agile, come la 2 cavalli che gli eroi del film spingono su per i terreni fangosi della campagna Jugoslava. In seguito, Zilnik non ha mai smesso di spingere un cinema al tempo stesso leggero ma sempre impantanato perché alle prese con le sabbie mobili del potere. Non solo quello del suo paese, che all’inizio del ’71 lo censura e lo costringe all’esilio. Dovunque è andato, si è portato appresso uno sguardo scomodo. Scomodo per la Germania degli anni settanta, dove pungola le contraddizioni del capitalismo tedesco. Scomodo per la Serbia degli anni novanta, dove, contro la tendenza generale, punta il dito contro l’imbroglio nazionalista. Non poteva essere diversamente per un uomo nato in un campo di concentramento nazista nel 1942. Settantasette anni e ventidue film più tardi, è ancora in prima fila, là dove la sua indignazione lo porta a battersi: a fianco dei migranti, che non filma da lontano ma con i quali fabbrica i film, prolungando nella pratica cinematografica la lezione cooperativa del vecchio socialismo jugoslavo. Mentre racconta di come le elite serbe hanno usato il nazionalismo per controllare le masse, sembra che parli del nostro paese.

La retrospettiva al Centre Pompidou è quasi finita. Che impressione le ha fatto?

In questi ultimi 50 anni, le occasioni di mostrare i miei film in Francia sono state poche, ad eccezione del mio primo lungometraggio, Opere giovanili, che è stato diffuso sia in sala che in televisione. La Cinemathèque ne aveva acquisito una copia 35mm ed è quella che abbiamo proiettato all’apertura della retrospettiva. Ero molto curioso di vedere la reazione del pubblico ai miei film, che è stata molto positiva. Quello del Pompidou è un pubblico molto esigente, che è abituato a vedere film molto diversificati. Il dialogo è stato interessante.

Come viene ricevuto il messaggio dei suoi film a distanza di tempo?

Non sta a me dirlo… Mi sembra di poter dire che ciò non è invecchiato è il metodo di approccio. Da sempre ho cercato di assumere il punto di vista delle persone comuni: operai, contadini, immigrati. Quando ci si orienta in questa maniera, quello che si osserva è soprattutto l’agitazione dell’elite politica, che in ogni epoca fa di tutto per mantenere il potere.

Molti dei suoi film funzionano come manifesti o come volantini, e sono stati girati nell’urgenza.

È vero che ho fatto alcuni film in maniera molto rapida, come una reazione a quello che potevo osservare, segnatamente nei grandi media. Ma non parlerei di volantini perché non ho mai fatto proclami. Al contrario, ho sempre cercato di fare i miei film in collaborazione con quelli che erano filmati, fossero attori o personaggi dei miei documentari.

Uno di questi film girati rapidamente è «Tito po drugi put medju srbima» (Il ritorno di Tito tra i Serbi, 1993). Come in «Vogliamo vivere!» di Lubitch, il dittatore si aggira per le strade, tra gli occhi sorpresi delle persone. Perché Tito doveva tornare?

A metà degli anni novanta, durante la guerra, i giornali erano ossessionati dalla storia nazionale. Non si parlava altro che di miti vari, di sogni assurdi, di gigantesche bugie storiche… Tutto questo brodo nazionalistico non aveva altro fine che quello di garantire il potere politico delle elite ex titine. Questi leader erano terrorizzati dalla fine di Ceausescu. Da un giorno all’altro si sono convertiti al capitalismo. Solo che nel paese non c’erano imprenditori e non c’era capitale privato. L’accumulazione primaria è stata realizzata sfasciando pezzi di patrimonio pubblico. Tutto questo accadeva mentre infuriava la guerra. Milosevic, tre anni prima che cominciasse il conflitto, di cui fu il principale istigatore, si era presentato alla testa del comitato centrale del partito come un nuovo leninista! Tre anni dopo aveva un linguaggio ultranazionalista; era il padre della patria serba che difendeva il popolo dall’Impero Ottomano… Cose senza senso. Ma appunto, le cose erano a tal punto assurde, che per raccontarle ci voleva un gesto assurdo. Che fare? Non avevo il capitale per fare un film di finzione. Potevo solo uscire in strada e girare un documentario per un paio di giorni. Ecco che mi è venuta in mente l’idea di questo Tito che torna in vita. Si tratta di una farsa… Eppure quello che porta è paradossalmente un pezzetto di normalità.

Come lo avete fatto circolare?

Attraverso il circuito underground delle cassette Vhs. Ne sono state vendute migliaia. È stato proiettato segretamente in tutte le repubbliche dell’ex Jugoslavia.

Sotto ogni regime, lei è sempre all’opposizione.

Il socialismo in Jugoslavia funzionava più o meno bene. C’era una parte di libera impresa. Si poteva viaggiare all’estero. C’era una scena culturale abbastanza aperta – e molti buoni film esteri circolavano nel paese. C’era la censura, ma alcuni film oscurati in un primo tempo (i miei per esempio) potevano essere fatti circolare in seguito. Molti pensavano per questo che il nostro modello sarebbe sopravvissuto al collasso dell’Urss e dei paesi del patto di Varsavia. Il modello produttivo, basato sulla cooperazione operaia, dava risultati soddisfacenti e che io stesso ho avuto modo di sperimentare nel mondo del cinema. Le elite di cui parlavo prima hanno distrutto quel modello produttivo. E per farlo hanno anche distorto la verità su quell’esperienza.

«Stara skola kapitalizma» (La vecchia scuola del capitalismo, 2009) è stato girato con gli operai. Che cosa ricorda di quell’esperienza?

All’inizio degli anni 2000 è cominciata la distruzione del modello produttivo socialista. Venivano smantellate le fabbriche e distrutti anche i documenti che dimostravano come queste appartenessero agli operai. Cancellavano ogni traccia del passato. Mi sono detto che bisognava documentare quello che succedeva. Andavo nei consigli di fabbrica a spiegare le mie intenzioni. E molto spesso in quelle riunioni scoprivo i miei protagonisti. Oggi tutto questo sarebbe impossibile. Le fabbriche somigliano a castelli medievali. All’ingresso ci sono delle guardie che impediscono a chiunque di entrare. In questo cambiamento, tra socialismo e capitalismo, la perdita più grande è stata il fatto che alle persone è stato negato un ruolo sociale che prima avevano. Per dieci anni si erano fatti addormentare dall’ideologia nazionalistica. «Siamo stati stupidi», mi dicevano… Nel film assisto a come, attraverso la lotta, gli operai creino una coscienza di classe. Una volta finito il film, gli ho detto andiamo a bere una birra e salutiamoci. Mi hanno risposto: «Aspetta! Il lavoro non è finito! Abbiamo fatto vedere solo una parte della verità. Bisogna mostrare chi sono questi banditi che ci hanno rubato le fabbriche!» Gli ho risposto che quello sarebbe stato un film di finzione. Perché di certo i nuovi padroni non avrebbero partecipato spontaneamente al film. E che per fare un film di finzione ci sarebbero voluti due-trecentomila euro, che non avevo. E loro mi hanno detto: «Gli attori li facciamo noi». È così che abbiamo realizzato Stara skola kapitalizma.

Negli ultimi anni il personaggio centrale dei tuoi film è diventato l’immigrato.

Gli immigrati hanno molte cose da insegnarci. Nella trilogia del personaggio di Kenedi, parlo delle famiglie di rifugiati che durante la guerra sono state accolte in Europa e che sono state fatte tornare all’inizio degli anni 2000. Dove abito, a Novi Sad, c’è una comunità Rom abbastanza importante. Alcuni amici mi dicevano delle difficoltà enormi di queste famiglie, e in particolar modo dei bambini che hanno vissuto gran parte della loro vita in Germania; non parlano la nostra lingua, non riescono ad integrarsi a scuola. Siamo andati ad incontrare queste persone. I bambini erano ottimi studenti. Ma qui sono completamente descolarizzati. Tutto questo avveniva all’inizio degli anni 2000, durante la fase chiamata dell’opzione democratica. L’idea era di avvicinarsi all’Europa. In verità lo Stato marginalizzava decine di migliaia di persone, che erano già europee. E dopo averle gettate nella disperazione le criminalizzava. Come se non bastasse, lo Stato si appropriava dei fondi europei per i rifugiati. L’Europa inviava fondi per i rifugiati, ma quelle famiglie non hanno visto un euro.

Il suo cinema da subito pone il problema della ricerca della verità. Perché la verità è così importante?

Senza la disinformazione, i deliri nazionalistici non sarebbero possibili. In questi anni abbiamo letto nei giornali notizie di violenze fatte nei confronti dei migranti, del fuoco appiccato alle loro baracche, dell’odio. Volevamo osservare questo fenomeno. Siamo andati in tutti i posti di frontiera della Serbia in Montenegro, in Macedonia. Abbiamo scoperto una situazione opposta a quella descritta dai giornali e dai media. Abbiamo trovato molta solidarietà da parte di persone ordinarie.