Nell’«era del disordine mondiale», prendendo in prestito il titolo di uno degli interventi del fitto programma della XIV edizione del festival Vicino/lontano Premio Terzani che ha animato la città di Udine proponendo, in una prospettiva di rispetto e confronto, temi di riflessione di massima urgenza che riguardano la collettività al di là dei confini geografici, politici, religiosi e culturali, si è parlato inevitabilmente anche di guerra. L’ospedale di tutte le guerre è la mostra che è stata ospitata a Palazzo Morpurgo, un’anteprima del progetto prodotto da Medici Senza Frontiere-MSF (premio Nobel per la Pace nel 1999), nato dalla collaborazione con il fotografo Alessio Mamo e la giornalista Marta Bellingreri.
I due autori italiani hanno raccontato senza retorica l’attività dell’ospedale di chirurgia ricostruttiva di Amman – Reconstructive Surgery Programme (RSP) – nato all’indomani della guerra in Iraq e scenario, in dieci anni di attività, di oltre 11mila interventi a circa 4.500 pazienti provenienti da aree di conflitto del Medio Oriente, prevalentemente Iraq, Siria, Yemen e Palestina.

[object Object], (foto di Alessio Mamo)

LINGUA ARABA
«L’ospedale di tutte le guerre» è il frutto di un lavoro quotidiano realizzato da Mamo e Bellingreri in tre settimane, nel corso del 2017, dove lo scatto fotografico non è che il momento conclusivo di un percorso fatto di sguardi e conquiste: la fiducia prima di tutto. L’elemento chiave è stata la conoscenza della lingua araba. «Marta, oltre a scriverlo, parla l’arabo molto bene» – ha spiegato Alessio Momo durante una conversazione skype tra Udine e Mosul (Iraq) dove si è recato con la collega, dopo aver fatto tappa a Kirkuk per andare a trovare Manal, il cui ritratto è valso al fotografo il riconoscimento di secondo classificato al World Press 2018 per la categoria «People» – «Questo ci ha permesso di entrare immediatamente in relazione con ogni singolo soggetto. Io parlo male l’arabo, mi sforzo ma è complicatissimo. Anche questo mio parlar male la lingua, però, a volte mi ha agevolato, perché i bambini mi prendono in giro e anche così nasce un rapporto».
Bambini, ragazzini e adulti – Amal, Wa’el, Mahmood, Madhor, Qatada… – con un destino comune, quello di vittime innocenti. All’immediatezza del confronto diretto tra il prima e il dopo è affidato il dramma di una storia da riscrivere. Il sorriso accennato del dopo non può non celare l’ansia – se così fosse sarebbe tutto una favola – ma, certamente, abbraccia la possibilità di un nuovo inizio. Dopo essersi confrontati con lo staff di MSF, il fotografo e la giornalista hanno deciso di affidare al linguaggio del bianco e nero il ritratto del soggetto nella fase precedente all’intervento, con le ferite aperte, la mancanza di un arto, il tessuto della pelle raggrinzito. Tutti gli scatti sono stati realizzati all’interno dell’ospedale, mentre con il colore – anche in un’evidente declinazione simbolica – viene restituita la vitalità di un momento di rinascita. Qualcuno ha scelto di essere fotografato in un parco o in un caffè, tra le mura domestiche di un familiare. Ascoltare e riportare le loro storie è un dovere.

MOHAMMAD E MANAL
Mohammad era un pastore di 23 anni quando, nel novembre 2016, pascolava il gregge nella campagna intorno a Homs (Siria) ritrovandosi a pochi metri da una battaglia tra ribelli e soldati siriani. La granata che gli è esplosa in faccia non solo ha causato la perdita di mento e denti, ma anche la capacità di parlare e mangiare. Dopo 35 operazioni maxillo-facciali oggi è migliorato sensibilmente, recuperando l’uso della parola e riuscendo a nutrirsi da sé. Nel frattempo ha imparato a leggere e scrivere in arabo: il suo desiderio più grande è quello di tornare a casa per ritrovare la famiglia, gli amici e anche le sue pecore.
Diversamente dalla foto che ha vinto il World Press in cui indossa la maschera, nel ritratto in mostra Manal, la ragazzina di 11 anni, mostra le gravi bruciature dovute all’esplosione di un missile, che non le permettevano di chiudere l’occhio destro, oltre che contratture muscolari sulla fronte, sull’orecchio destro, sul collo. Oggi Manal suona la chitarra, chiude bene le palpebre e può finalmente fare sonni ininterrotti. Un’altra delle undici storie, particolarmente cara a Marta Bellingreri è quella di Amal, anche lei irachena di Kirkuk. Una giovane donna che già dall’età di 10 anni sapeva cucire. Era nel souq della sua città, quando esplose un’autobomba provocandole ustioni sul torace, sul collo e sulle mani. Dopo vari interventi, Amal ha recuperato l’uso delle mani. La fotografia scattata da Mamo intercetta il colore del suo sorriso. «Voleva andare al mercato a comprare la stoffa – racconta la giornalista -. Era felicissima nel guardare le stoffe, nel toccarle. Di solito cuce a casa o in ospedale, ma quella foto è stata scattata in un bel caffè di Amman. Lei non ha perso un attimo. Ha preso la stoffa che avevamo comprato e ha cominciato subito a cucire». Nel gesto reiterato della cucitura, i punti di sutura cicatrizzano il passato.