La storia di Palermo, negli anni 60 del secolo scorso, appare a un osservatore esterno che vi si dovesse approcciare, come l’ingarbugliamento di gomitoli diversi e l’intreccio di nodi che si andranno a sciogliere – non senza difficoltà, dopo circa trent’anni, e non tutti – con le scelte, il lavoro e la morte di investigatori, politici e magistrati che sono stati, in varia misura, legati a quelle vicende.

SI PASSA DA UN DESERTO istituzionale e fisico a una serie di labirinti amministrativi tra essi connessi tali da confondere qualsiasi avventore e lasciarlo esangue in una melassa in cui il pubblico è il privato e il privato il pubblico, le mafie generazionali diventano espressioni della politica istituzionale e in essa trovano linfa per rigenerarsi, fino a che l’idea di città, o di labirinto, evoca la sua stessa assenza. In un saggio da poco pubblicato (Fabrizio Pedone, La città che non c’era, Istituto Poligrafico Europeo, pp.296, euro 15), si scava tra le radici di queste vicende, e cosa emerge? Che se riuscissimo a cancellare dalla storia della città gli anni 60, come una sorta di carotaggio epocale, eliminando personaggi ed eventi che ne hanno determinato il futuro e il dramma a esso connesso, Palermo sarebbe diversa.

CHI OGGI QUI OPERA si prende cura di lenire le pene degli eredi delle disgrazie di quegli anni, a partire dalle occupazioni di quartieri di case popolari che avrebbero dovuto essere assegnate (sì, con le liste d’attesa) ma per incuria di una burocrazia da retaggio borbonico erano rimaste sospese in un limbo tra il possibile e l’incerto. La goccia è caduta dopo il terremoto del 1968 e lo Zen1, iniziato nel 1956 sotto la sindacatura di Luciano Maugeri (apripista alle gestioni «illuminate» di Lima e Ciancimino) e completato nel 1959, ma rimasto deserto, nonostante la presenza delle urbanizzazioni primarie, venne invaso da un popolo disagiato e sbalordito dall’inedia amministrativa.

STESSA SORTE capitata qualche anno dopo allo Zen2 che, però, non aveva ancora quei servizi minimi infrastrutturali tali da individuare la possibilità di una vita dignitosa in un quartiere extraurbano. Come si dice? La fretta ha reso ciechi gli occupanti, e la vita s’è dovuta adattare alla sopravvivenza. L’innesto esplosivo è dato dalla liminare riconoscibilità del residente, parzialmente visibile attorno alle urne e fantasma quando gli si devono «inalienabili» diritti che una prassi in voga, al cambio corrente, trasforma in cortesie, favori, doveri e baratti.
Tra qualche anno lo Zen2 compirà mezzo secolo nel quale, con buona pace di Gregotti e alla stregua di distopie letterarie e cinematografiche (come le «cataste» di Ready Player One), si è sviluppata una specie a parte, antropologicamente riadattata al luogo, per la quale la città confinante, da cui teoricamente dipende, sta in un quasi-altrove e arrivarci corrisponde a un trasferimento spazio-temporale.

LO SANNO GLI OPERATORI socio-etici ed educativo-estetici, coordinati dall’associazione Handala, del progetto ZenGradoZero – vincitore del Creative Living Lab-II Edizione, promosso dalla Direzione generale creatività contemporanea e Rigenerazione urbana del Mibact – che suggeriscono uno sguardo inedito sugli interventi autonomi di ampliamento o abbellimento degli spazi comuni, collocati da inani regole nel cosiddetto «illecito edilizio», sostenendola come «un’ architettura nella quale l’autocostruzione è affermazione di un uso civico dello spazio».
Il progetto ha individuato e censito, con fotografie e rilievi, «elementi» di arredo urbano domestico con i quali gli abitanti hanno reso loro familiare lo spazio delle insulae. Questi, ordinati in abachi, ne consentono una catalogazione semantica.

IN UNA SECONDA FASE i laboratori di autocostruzione realizzeranno oggetti che saranno utilizzati per rendere ospitale e funzionale lo spazio delle insulae per lo svolgimento di attività, attraverso le quali enfatizzare il senso di riappropriazione dello spazio pubblico. Le figure istituzionali sono solite avere sobbalzi e sconcerti a causa dei facinorosi che si intestano interessi che dovrebbero essere i loro, accorgendosi che, sulla carta, esistono brani di città inespressi. Disagio che si dissipa ritornando alla realtà del centro storico e della necessità di dare a questo il giusto decoro, per via dei turisti che lo visitano. Nessun plauso, non così palese, a chi ha dato e continua a dare ai satelliti extra moenia il peso che «culturalmente» si deve.