Il teatro è tornato in piazza a Santarcangelo. A ridosso della facciata delle scuole, sulla centrale piazza Ganganelli, è cresciuto un palco; e di fronte ad esso una piccola gradinata metallica ne preclude la visione a chi sta fuori. È lo spazio che il festival riserva quest’anno agli spettacoli offerti alla cittadina che da un quarantennio lo ospita, tanto da rendere ormai il suo nome sinonimo di teatro. Era stato del resto il primo suggerimento offerto a Leo de Berardinis, tanti anni fa, quello di puntare sulla piazza per ricucire un rapporto che da un po’ di tempo sembrava slabbrarsi, e infatti era tornata a riempirsi, quella piazza ancora presente nella memoria, intorno alla voce di Giovanna Marini…

Ma la memoria deve fermarsi su questa soglia, troppo distanti se non proprio opposte sono le due situazioni. Se quella di allora voleva essere inclusiva, la piazza di Santarcangelo 13 sembra invece voler marcare anche fisicamente una separazione rispetto a una zona di teatro più tradizionale, in cui ancora pesano parole come attore o regia. Anche laddove questa tradizione si incarna in attore anomalo qual è Danio Manfredini o nel laboratorio condotto da Federico Tiezzi con un gruppo di giovani attori intorno alle Scene di Woyzeck. Il festival vero, sembra dirci, sta da un’altra parte.
Se l’anno scorso era sembrato palpabile l’emergere di una linea di operatività ai margini se non fuori dalla cornice della finzione, questa edizione radicalizza il rifiuto di fare del festival una vetrina di spettacoli; la scelta della marginalità enfatizza la tensione che già si osservava a un grado zero della teatralità, che cancella l’attore e l’azione e da ultimo la stessa presenza fisica di un performer. È il caso del progetto installativo Art you lost? firmato da un gruppo di artisti romani di diversa provenienza (Muta Imago, Santasangre…), che conduce lo spettatore trasformato in involontario performer a lasciare le proprie tracce (una parola tracciata su una mappa, una frase sussurrata al telefono…) lungo un percorso prefissato. O la versione italiana della performance Purge di Brian Lobel, newyorkese trasferito a Londra, in cui un’attrice (qui Eva Geatti) seduta per una giornata al tavolo di un caffè passa in rassegna i propri contatti facebook cancellando quelli indicati dagli occasionali spettatori. O ancora la Agoraphobia dell’olandese Lotte van den Berg che spinge un’altra attrice (qui Daria Deflorian) a vagare per strada cianciando con chi incontra, mentre i supposti spettatori l’ascoltano a distanza con i propri telefoni cellulari.

Non è casuale che si tratti, in tutti questi casi, di un format e non di ciò che si è chiamato fin qui creazione. Televisione, computer, telefono vi ricorrono con frequenza quali strumenti di interlocuzione con la quotidianità di uno spettatore che si vorrebbe interattivo a livello individuale. C’è forse di mezzo il dissolversi di un’idea di comunità, centrale nel discorso teatrale, al cui posto si installa una folla solitaria. E non è solo una sensazione che nasce dal vento che tira anche sulla cittadina romagnola. Da un mese il Comune di Santarcangelo è commissariato. Il giovane sindaco Morri ha rassegnato le dimissioni, dopo che qualcuno della sua maggioranza si è defilato impedendo l’approvazione del bilancio. E viene da pensare a Romeo Donati, vecchio comunista di altre stagioni anche del festival…
Anche la direzione artistica di Silvia Bottiroli ha perso qualche pezzo, qualcun altro è stato chiamato a rimpiazzo. Cresce la presenza internazionale, e forse è un’indicazione per il futuro. Cresce l’attenzione alla danza e ai suoi dintorni (Francesca Proia, Cristina Rizzo, Alessandro Sciarroni…). Si fa un festival per costruire e difendere una visione del teatro, scrive a introduzione del programma. Una visione fatta di singolarità irriducibili. Prendere o lasciare. E non ci si riferisce solo alla un po’ repellente Honey Queen di Gertjan Franciscus van Gennip, performer olandese che in un claustrofobico slargo delle grotte scavate nella collina si muove su un divano con programmata ambiguità, snocciolando qualche frasetta in inglese, gocciolante del miele del titolo.

E visto che si è parlato di danza, si lascia Santarcangelo col ricordo del brevissimo studio realizzato da Virgilio Sieni con due giovanissime danzatrici, all’interno di un più ampio e ambizioso lavoro di «trasmissione del gesto», di cui si è visto qui anche un altro tratto più convenzionale. Danzano le due ragazzine con grazia e precisione orientali sulla musica di Arvo Pärt o dell’ormai dilagante Antony and the Johnsons (anche Manfredini, anche Tiezzi!), danzano il loro essere In ascolto, l’una dell’altra, ed è come un’oasi in cui rifugiarsi. Dura un quarto d’ora. Si pensa al teatro salvato dai ragazzini. Ma forse non basta.