Il governo non ha perso tempo con il decreto legge (n. 34, 20 Marzo) che, liberalizzando i contratti a termine, divenuti ora sempre “acausali”, condanna al “precariato a vita” tutti quelli che, giovani e vecchi, troveranno o cambieranno lavoro. E’ un crimine sociale di enorme proporzioni, commesso nell’indifferenza quasi totale di partiti e sindacati, con l’eccezione – va riconosciuto – della Cgil e di Susanna Camusso, da cui è giunta una vera ripulsa, un po’ ritardata ma almeno molto netta.

Il fatto è che il decreto si è rilevato ancora peggiore di quanto si temesse: non si distingue più tra “primo” contratto a termine e contratti successivi tra le stesse parti, e non si richiede più nessuna causale “obiettiva” né per il contratto e neanche per le sue proroghe o rinnovi. Il contratto a termine, dunque si può fare sempre per tutti senza spiegare il perché e senza collegamento ad una esigenza temporanea, così come sempre si possono utilizzare contratti di somministrazione, null’altro che contratti a termine “indiretti”.

L’unico limite è di non passare, nel complesso, i 36 mesi di utilizzo a termine dello stesso lavoratore, per non far scattare una trasformazione a tempo indeterminato: un limite che già esisteva e resta, ma che ha sempre fatto più male che bene ai precari, perché i datori di lavoro sono sempre stati attenti, e più lo saranno, a non superare quella soglia temporanea. Vi è poi il “tetto” percentuale del 20% sul complesso dei lavoratori occupati in azienda, che rappresenta anch’esso un favore per il padronato perché “alza” il tetto già previsto dai contratti collettivi (in media 10-15 % dell’organico), che peraltro non ha mai funzionato, giacché le aziende, e soprattutto la P.A. (centri per l’impiego) tengono riservati o nascondono i dati numerici relativi.

Dopo questa realistica, terribile presa d’atto, occorre, però, reagire, con tre diversi ordini di riflessione, riguardanti la problematica etica sottesa a questo decreto, la problematica giuridica europea, e, infine la problematica del contrasto e delle possibili modifiche nel “iter” parlamentare di conversione del decreto in legge.

La problematica etica non è un di più, ma il vero cuore del problema. Si tratta di rispondere ad una domanda: perché ora viene consentito ai datori di lavoro di assumere a termine, anche se l’esigenza lavorativa da coprire non è a termine ma ordinaria e permanente? Non si dica “per provare” il lavoratore, visto che nel contratto a tempo indeterminato il periodo di prova c’è già, e può esservi anche nei contratti a termine “regolari”.

La risposta che ogni persona di buona fede e intellettualmente onesta può dare è una sola: con il contratto a termine il lavoratore vive e lavora sotto il ricatto permanente della mancata proroga e, dunque, mai può alzare la testa o rivendicare alcunché. Ricatto che, invece, non funziona con il contratto a tempo indeterminato, che può essere risolto solo in presenza di una giusta causa. Questo è il discrimine etico: chi tra governanti e uomini politici, e, peggio ancora sindacalisti, pur comprendendo questa indiscutibile verità, non si ribella e non si oppone ( davvero, non solo con formali e frettolose dichiarazioni) è persona moralmente spregevole ed indegna del suo ruolo.

La seconda considerazione è che il decreto è sicuramente illegittimo, per evidente contrasto con la normativa europea sui contratti a termine (direttiva 1999/70/CE), la quale fu recepita proprio con il D.Lgs. n. 368/2001 che ora questo decreto ha stravolto e devastato. La direttiva europea richiede infatti “ragioni obiettive” per la stipula di un contratto a termine, o, almeno per le sue proroghe o rinnovi, ed impedisce, con una “clausola di non regresso” peggioramenti della disciplina di recezione della stessa direttiva, e quindi proprio del D.Lgs n. 368/2001.

La protervia, la deficienza etica e l’ipocrisia dei nostri governanti si dimostra, dunque, pari solo alla loro ignoranza e al loro provincialismo. Il contrasto con la normativa europea non toglie che emergano anche evidenti motivi di incostituzionalità, per violazione, anzitutto, con gli artt.2 e 4 della Costituzione, che tutelano i diritti fondamentali dei lavoratori, ed anche per la “irragionevolezza” che questo decreto induce nel sistema dei rapporti di lavoro. Infatti, il contratto a tempo indeterminato viene ancora proclamato, “forma comune di rapporto di lavoro” dalla premesse dello stesso D.Lgs 368/2001, ma, poi, al contrario viene incentivato al massimo, con la “acausalità”, proprio il contratto a termine, e in simili contraddizioni all’interno di una stessa legge la Corte ravvisa, appunto, motivo di incostituzionalità.

Quanto alla possibilità e modalità di contrastare e scongiurare questa normativa, il discorso va articolato su diversi piani. Anzitutto, ove restasse questa disciplina, essa verrebbe impugnata in ogni sede giudiziaria, dalla Corte di Giustizia europea, alla nostra Corte Costituzionale, ma anche di fronte ai normali giudici del lavoro, i quali a nostro avviso, potrebbero addirittura disapplicare, semplicemente, queste norme contrarie a precise previsioni del diritto europeo.

Ci ripromettiamo di tornare espressamente (per formare una specie di vade-mecum) su questa problematica dell’impugnazione, ma fin d’ora i datori di lavoro devono sapere che chi ha promesso loro la “onnipotenza” nel rapporto con i dipendenti, li sprofonderà, invece, inevitabilmente, in un contenzioso fitto ed accanito, suscitato da numerosissimi legali in ogni sede giudiziaria italiana.

Sul piano, invece, del contrasto in sede parlamentare e nell’iter di conversione, l’opzione vera è quella del ritiro di questo decreto sotto ogni profilo disastroso, e che ha avuto l’unico merito di mostrare di quale pasta siano davvero fatti i “democratici” Matteo Renzi e Giuliano Poletti, padre-padrone del sistema cooperativistico, oggi ridotto purtroppo, come ben sanno tutti gli avvocati giuslavoristi, a ultimo girone del precariato e dello sfruttamento. In ogni caso, però, ricordiamo alcune misure di contenimento “minime” da osservare quando si introducono rapporti “speciali” sottotutelati, onde evitarne l’abuso:

a) quando viene introdotto un “tetto” percentuale massimo di rapporti “speciali” sull’insieme degli occupati, occorre mettere a punto un sistema di osservazione e monitoraggio semplice, trasparente e accessibile a tutti, come potrebbe essere “l’anagrafe pubblica” dei rapporti di lavoro. Potrebbe essere questa l’occasione buona per “aprire il sipario” (che è sempre rimasto chiuso, nonostante la contrattazione collettiva) sulle vere percentuali dei rapporti di precari nelle singole aziende: chissà che non si scopra che la maggioranza dei datori di lavoro quel 20% di lavoratori a termine ce l’abbia già!

b) Introdurre incentivazioni normative alla trasformazione a tempo indeterminato, non consentendo (se non in minima parte) di stipulare nuovi contratti a termine a chi non ha prima trasformato i vecchi, e premiando, invece, le alte percentuali di trasformazione.

c) Introdurre incentivazioni economiche, e cioè essenzialmente decontribuzioni sociali, ma in regime “di sospensione” e non immediate. Per comprendersi: chi assuma lavoratori nuovi a termine non paga, al momento, contribuzione, che va però, versata e ripagata nel suo insieme se poi il lavoratore non viene stabilizzato al termine del contratto.

Altre misure possono esser pensate e messe a punto, ma occorre volontà politica: per non rendersi complici di questo crimine sociale occorre che partiti e sindacati costruiscano immediatamente sedi di confronto ed elaborazioni su questo tema, e su quello più generale della “flessibilità in entrata”.