È un racconto di un lungo amore, quello che si snoda ai piani alti del museo Madre di Napoli, in questi giorni. E come tutti gli amori che si rispettano, anche quello passionale e totalizzante che ha unito Lucio Amelio alla sua città racchiude in sé momenti di grande speranza e tunnel bui, in cui rabbia e incomprensione hanno preso il posto dell’élan vital, quello slancio di energia che accompagnò sempre un gallerista sui generis, compagno di strada di molti artisti più che loro mercante. Perché Amelio non esponeva soltanto le opere dei suoi «preferiti». Tanto meno andava a prelevare le opere presso i loro studi. Il «già fatto» non riscuoteva il suo interesse.
Lui cercava di respirare la loro stessa aria, ci chiacchierava a Capri, li frequentava in vacanza, organizzava per loro cene e feste, condivideva idee creative e visionari mondi paralleli. A volte litigando, altre semplicemente ridendo. «Vedere insieme mio fratello e Beuys era una cosa bellissima. Ad avvicinarli non era solo il lavoro, ma un modo di concepire l’arte e la vita….», dice la sorella Anna.

La mostra al Madre, a cura di Andrea Viliani, con la collaborazione della nipote Paola Santamaria (Archivio Amelio), si fonda su una certosina ricerca dei materiali e documenti – bellissima la cassettiera che custodisce le immagini, le foto-ricordo e i momenti clou di un’esperienza irripetibile. Parte dai giorni felici della Modern Art Agency, aperta da Lucio Amelio nel 1965 e si ferma al 1982, quando il progetto Terrae Motus cominciava a germogliare. Oggi quella collezione eccezionale, che rappresentò una chiamata alle armi per gli artisti (Fate presto titolava il Mattino all’indomani del sisma e quel grido venne trasformato in un potente trittico da Andy Warhol), una terapia per ricucire la ferita del terremoto, è alla Reggia di Caserta, come da lascito testamentario del gallerista.

La rassegna napoletana ha un doppio andamento, sia filologico che «creativo». Da un lato, c’è il percorso cronologico (le sale una dopo l’altra ricostruiscono alcuni scorci delle mostre che si susseguirono, a ritmo convulso, lungo i confini del «territorio Amelio», cambiando per sempre i connotati culturali di Napoli) e dall’altro, è come entrare in un labirinto. Si apre e si chiude, infatti, su un sogno, quel museo che doveva «abitare» un’ala dell’antico complesso conventuale di Santa Lucia al Monte. Il progetto di quell’utopia che prevedeva al suo interno anche residenze per artisti, una biblioteca, alcuni laboratori diventa così un perno centrale di tutta l’esposizione e il museo immaginato – e immaginario – di Amelio si offre come desiderio irrealizzato ma non irrealizzabile. È una Via Lattea da perseguire per le giovani generazioni che visiteranno la mostra, soprattutto oggi, quando il loro paese è avvolto nelle sabbie accecanti del deserto e per vedere ancora, si è costretti ad andare a spalancare gli occhi oltre frontiera, in posti lontani. Amelio, infatti, uno dei più grandi -sciamani dell’arte internazionale, aveva iniziato a pedinare le sue idee pur senza budget. Semplicemente, ci credeva con fermezza, racconta ancora la sorella Anna. «È stato profetico, ha fatto scelte che si sono rivelate vincenti, ha portato gli artisti stranieri a Napoli e gli italiani all’estero, Basilea e nei musei. Ha avuto, certamente, un carattere difficile: non si fermava di fronte a nulla quando era convinto di una sua ’visione’ e le istituzioni, a volte hanno risposto ai suoi stimoli, altre non hanno capito la sua energia….».
Nessuno però è riuscito a bloccare un sognatore imperterrito. Quel ragazzo andato via da Napoli, innamorato della Germania, un giorno tornò: fu un brutto incidente (salendo sul monte Tibidabo era precipitato in un grosso buco) a costringerlo a una convalescenza lunga un anno. Lavorò in molti campi, anche nei cantieri metallurgici di Bagnoli come interprete di tedesco; dopo, ci fu solo spazio per l’arte, una meravigliosa ossessione. Lui, cantante dalla voce stentorea (incise anche un 33 giri, Ma l’amore no), attore per diletto (anche con Mario Martone e Lina Wertmüller), architetto e ingegnere incompiuto decise di inaugurare la sua Modern Art Agency in un palazzo di Parco Margherita (era il 1965, poi si sposterà in piazza dei Martiri nel 1969 e fu Kounellis a battezzare i nuovi spazi, con il suo viaggio verso un altrove indefinito). «In cucina mangio, vivo e dormo, le altre due stanze le dedico all’arte», scriveva Amelio. Arrivò da Berlino l’artista Heiner Dilly – la mostra del Madre ha qui il suo prologo – e Filiberto Menna recensì quella personale atipica. Anzi, fece di più: acquistò un’opera e, come lui, fece Marcello Rumma dando coraggio al nuovo gallerista. Il resto è storia.

Vagabondando per le sale del museo, si può scegliere quale sedimento della memoria estrapolare dal contesto: è anche questo uno dei meriti dell’itinerario proposto. Astrazione, Arte Povera, Transavaguardia, incontri mediatici (come quello fra Warhol e Beuys) cominciarono a fluire fra le strade della città. La radicalità di Amelio e della sua «comunità» suscitava reazioni a catena.

Il 1971 fu un anno magico. È il tempo della Rivoluzione siamo noi, prima personale italiana di Joseph Beuys: sul manifesto, vediamo l’artista tedesco passeggiare nel viale di Casa Orlandi, ad Anacapri, residenza dei Trisorio. Il vernissage fu una lezione politica: su una lavagna andava in onda la democrazia, si ridefinivano i concetti di società e cultura. Tutti erano invitati a partecipare, naturalmente anche il gallerista diveniva un complice e, allo stesso tempo, un sismografo degli umori (condivisi) di un’epoca.

Il 1980 fu invece assai meno magico. Il 23 novembre un terremoto squassò la Campania, ma Lucio Amelio esorcizzò la catastrofe a modo suo. Invitò gli artisti a lavorare contro il dolore. Beuys tornò e costruì il suo Terremoto in Palazzo. La sua installazione parlava della fragilità di tutti gli equilibri umani. E trasformava la situazione di Napoli in un monito universale.