Alias

Uno scatto per capire

Uno scatto per capire

Intervista Un incontro con Lisetta Carmi nella sua casa, nel centro antico di Cisternino

Pubblicato quasi 8 anni faEdizione del 31 dicembre 2016

Il silenzio è prezioso. È un privilegio per Lisetta Carmi (Genova 1924), come la solitudine. Nella sua casa, nel centro storico di Cisternino – in cima a una ripida scalinata che lei sale e scende con agilità, malgrado il bastone e l’età – vive da sola. Mangia poco, ma legge tanto e risponde a tutte le lettere che le arrivano. Bisogna avvicinarsi e parlarle ad alta voce, perché non ci sente bene. Ma mettere l’apparecchio non le interessa affatto, anzi in fondo un po’ di sordità la preserva da tante inutili chiacchiere.

Dopo anni ha dato le dimissioni dal comitato direttivo dell’ashram Bhole Baba (che ha fondato nel 1979) – «vado alle cerimonie e anche a parlare con i ragazzi, ma voglio essere libera. Voglio occuparmi solo della mia persona», afferma. In questi ultimi anni si è dedicata soprattutto allo studio della pittura calligrafica cinese e ai bambini: «Ho la coscienza che i bambini sanno tutto. Gli unici maestri sono loro, come dice Giuliano Scabia». Quanto all’archivio fotografico (è in una stanza al piano di sopra), ad occuparsene è Gian Battista Martini che ha curato anche la sua mostra nell’ambito della IV edizione di Castelnuovo Fotografia. Gli occhi azzurrissimi di Lisetta sono vivaci, come la sua lingua è ironica.

Ci sediamo intorno al tavolino rotondo al centro del piccolo soggiorno su cui si apre la minuscola cucina, lo studio (a un gradino di distanza), la camera da letto e l’orgoglio della casa: il bagno. «L’ho voluto come in India – spiega – dove il water è separato dal lavandino».

C’è tutto un mondo in quel bagno, oltre agli ordinatissimi barattoli di creme, le foto d’epoca dei genitori, una statua di Budda, un bellissimo tappeto orientale, ma soprattutto – attraversando l’anti bagno – non si può non essere attratti dalla combinazione della statua della Madonna in una nicchia, sotto una bella di Babaji (il guru indiano che le ha dato il nome spirituale di Janki Rani) e, in cima alla libreria, il candelabro a sette braccia. È stato proprio Babaji a decodificare le cinque vite di Lisetta Carmi, nel disegno appeso ad una parete del salotto.

DSC_0227 - LIsetta Carmi nella sua casa a Cisternino, 2016 (ph Manuela De Leonardis)
LIsetta Carmi nella sua casa a Cisternino, 2016. Foto Manuela De Leonardis

 

«Fotografavo per conoscermi»: questa è un’affermazione che ti appartiene….

Quando mi chiedono chi mi ha insegnato a fotografare, rispondo sempre la vita. Non ho mai fotografato per essere una brava fotografa. Non me ne fregava niente. Volevo capire. Capire gli altri e capire me stessa. Tutto lì. E, in diciotto anni – dal 1960 (realizza le prime fotografie con un’Agfa Silette acquistata in occasione del viaggio in Puglia, a San Nicandro Garganico, quando accompagna l’amico etnomusicologo Leo Levi che andava a registrare i canti ebraici di un gruppo legato a Donato Manduzio, ndr) al 1978 – ho fatto quello che altri fotografi facevano in cinquanta o sessant’anni, perché lavoravo diciotto ore al giorno. Stampavo tutto da me, preparavo le didascalie, scrivevo l’articolo. Ho sempre dato voce ai poveri. Sempre! Sono ebrea e so cosa vuol dire essere discriminati. Avevo 14 anni, quando mi hanno buttata fuori dalle scuole. Mi piaceva andare a scuola, mi divertivo con le mie amiche. Ero bravissima, poi di colpo è finito tutto. Eravamo in vacanza in Val Martello, nel nostro albergo c’era anche Ardito Desio. Lo conosci? Un porco! Ci metteva sul tavolo la rivista La difesa della razza per farci vedere cosa ci sarebbe successo. Infatti, quando tornammo a Genova, entrarono in vigore le leggi razziali. I miei fratelli Eugenio e Marcello in quindici giorni partirono per la Svizzera, ma io ero la femmina e dovevo rimanere a casa. Ero tutta triste, non ridevo più. Allora la mamma disse che avrebbero mandato anche me in Svizzera e scrisse una lettera al maestro di pianoforte Alfredo They, di cui ero la migliore allieva. Lui quando, la lesse, la strappò e disse che non se ne parlava neanche. Così non partii. Quando poi, nel 1943, con papà e mamma sono partita per la Svizzera passando il confine attraverso le montagne, con i tedeschi che potevano prenderci, portavo la mamma sottobraccio e dall’altra parte avevo i due volumi del Clavicembalo ben temperato di Bach. Quando arrivammo lì e ci dissero che eravamo salvi, ricordo ancora che c’era una luna piccola nel cielo e la mamma la guardava, seduta su una valigia, e le venivano giù le lacrime dagli occhi. In Svizzera, dove siamo stati per un anno e mezzo, sono entrata subito al Conservatorio. Ma anche lì ho avuto delle esperienze molto tristi. Sembravo allegra, ridevo sempre, però ero molto sensibile. «Peccato che non m’hanno presa i tedeschi», dicevo a mio padre. «Ma che figlia matta, ci siamo salvati in Svizzera!», mi rispondeva lui. Sì, perché se mi avessero presa o sarei morta o avrei potuto aiutare gli altri.

Tra i tuoi amici c’era lo psicoanalista Elvio Fachinelli, autore di una nota nel tuo libro sui travestiti…

Quello dei travestiti è un lavoro bello e molto importante. Pensa che ho lavorato sei anni con i travestiti, mica un giorno! Un mio amico carissimo, Mauro Gasperini, mi disse che quella sera ci sarebbe stata una grande festa dei travestiti e mi chiese se ci volessi andare con lui. Gli dissi di sì, andai e feci un po’ di fotografie. Infatti, nel libro ci sono anche le fotografie della festa di capodanno 1965. Io non davo giudizi e loro si sono lasciati fotografare. Guardavo tutto per capire. A quel tempo mi sentivo un po’ donna e un po’ uomo. Mi chiedevo perché dovevo essere una donna. Quando ero piccola volevo essere un maschio, come i miei fratelli. Mi tagliavo i capelli. Alla fine del lavoro con i travestiti ho capito che non esistono gli uomini e le donne, esistono solo gli esseri umani. Uno ha il corpo da donna e l’altro da uomo, ma sono solo esseri umani. Dopo due o tre giorni tornai con le stampe delle loro fotografie che regalai ad ognuno. Così è cominciata questa amicizia. La polizia, se avesse potuto, mi avrebbe arrestato, ma ero di una famiglia molto perbene di Genova. Mio padre si vergognava tantissimo che andavo a fotografarli. La mamma no, era tutta entusiasta, mi diceva «che belle queste fotografie dei travestiti». Io allora ero andata via di casa e stavo vicino a Via del Campo, dove loro lavoravano. Hanno capito che li amavo,  la Morena (musa della canzone Via del Campo di De André, ndr) – una delle protagoniste – dopo tantissimi anni mi mandò a chiamare, perché voleva salutarmi prima di morire. Quando andai da lei mi mostrò il mio libro. «Vedi, ce l’ho ancora», mi disse. Ad ognuno avevo regalato una copia. La Gitana, invece, che da giovane era stata il ragazzo di De Pisis, era il capo di tutti. Era bellissima. Era lei che avrei voluto mettere in copertina, ma avevo qualche timore a chiederglielo. Ricordo che andammo in un bar, le parlai tanto del libro che stavo facendo e del desiderio che anche lei ci fosse. Fu lei stessa a dirmi che accettava purché la mettessi in copertina. Infatti, è lì!

In una fase successiva della vita, hai incontrato Babaji…

Babaji è con me, non mi abbandona mai, neanche un momento. È stato lui, in un modo molto misterioso, a chiamami. È il mio maestro, un’incarnazione divina sulla terra, anche se c’è stato solo 14 anni. La prima foto che gli ho fatto è una fotografia vivente, perché lui ha un occhio che ride e l’altro serio. Se sei buono ti sorride, se invece fai una cosa brutta ha una faccia molto severa. Dopo averlo conosciuto andavo tutti gli anni in India, a Herakhan, e ci stavo per due e tre mesi. Credo in una forza universale che non conosciamo e Babaji è questa forza universale. Era incredibile! Lui mi ha dato il compito di fare l’ashram e anche di portare mia mamma da Genova a Cisternino, in un trullo, quando aveva 95 anni. «Se lo dice Babaji, vengo», mi disse lei ed è venuta. Ha vissuto lì per cinque anni. Quando è morta l’ho portata in chiesa, con tutti i paesani che venivano ad abbracciarci. Eugenio, mio fratello, mi ha detto, «ma sei matta? Noi siamo ebrei!». A lui, poi, non piaceva troppo essere baciato e toccato dai paesani, ma a me ha fatto piacere.

La tua famiglia ti ha sempre accettata, anche nelle tue stranezze?

Eh sì, è logico. Il papà e la mamma erano molto intelligenti. Papà, anche quando eravamo piccoli, diceva «chi non lavora non mangia». Lui aveva cominciato a lavorare a 15 anni, faceva l’assicuratore. Era molto severo, ma anche molto buono. Ho avuto la fortuna di ereditare da lui tutta la parte pratica e da mia madre tutta quella spirituale. Però ero anche molto ribelle!

I consigli di mema

Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento