Uno scatto lungo 50 anni. Un’ìstantanea contro una delle puntate più buie della Storia. Tommie Smith e John Carlos sul podio a Città del Messico, primo e terzo il 16 ottobre 1968 nella finale dei 200 metri piani alle Olimpiadi successive alla morte di Martin Luther King, una delle immagini più forti, controverse del Novecento. Con i pugni alzati, i guanti neri simbolo del black power, i piedi scalzi in segno di povertà. E quel capo in giù, assieme a una collanina di piccole pietre al collo, ognuna a rappresentare un nero morto per la lotta per i propri diritti. E in mezzo a loro, su quel podio, Peter Norman, un australiano imbucato in una pagina di letteratura non solo sportiva ma che per solidarietà con i due atleti afroamericani indossò la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights. King era morto in aprile, il 5 giugno toccò anche a Bob Kennedy. Squalificati a vita, Carlos e Smith, furono lasciati soli a fronteggiare le minacce di morte e l’ostracismo dell’estabilishment. La loro battaglia, segnata dalla segregazione razziale vissuta dall’infanzia, fino alla gara della vita, 200 metri e quel podio per la riscossa dei diritti civili, politici, sportivi era solo l’atto conclusivo delle inquietudini americane nella seconda metà del Novecento, non solo Martin Luther King ma anche Malcom X, prima ancora linciaggi e scioperi, dopo invece l’ascesa delle Black Panthers. E quindi quel gesto, con lo sport, soprattutto olimpico, da sempre veicolo di messaggi carichi come una punizione a effetto di Maradona o Zico. Prima del podio a Città del Messico nel 1968, altri fenomeni si erano segnalati per gesti potenti, compiuti o subiti. Come ai Giochi olimpici del 1936 Jesse Owens, lo sprinter più forte di sempre, quattro ori alle Olimpiadi del Fuhrer, che non ricevette il saluto di Hitler sul podio, a Berlino. E poi, un altro fenomeno del livello di Owens, Muhammad Alì e la medaglia d’oro vinta alle Olimpiadi di Roma scherzando gli avversari, 58 anni fa, lanciata nel fiume Ohio nel 1967, dopo essersi rifiutato di indossare la divisa militare partendo per il Vietnam, arrestato per renitenza alla leva e privato dei suoi riconoscimenti, tra cui il titolo mondiale, conquistato tre anni prima. Con The Greatest, il soprannome di Alì, costretto per molto tempo a rinunciare alla boxe.

Da allora, da Carlos e Smith su quel podio, azioni così forti non se ne sono più verificate. Forse lo sport è cambiato, la potenza dei messaggi nell’era social ha lasciato il campo a un tweet, un post, magari incisivo e virale ma con meno forza emotiva di un gesto del genere. Anche se è visto qualcosa nel calcio, per esempio in Italia, quando vari calciatori mincciarono di lasciare il campo per le offese razziste provenienti dagli spalti. In Italia è capitato in Serie A a Marc Anthony Zoro, difensore ivoriano del Messina, a Kevin Prince Boateng, ora al Sassuolo, che in maglia Milan scagliò una pallonata all’indirizzo di uno spicchio di curva avversaria che vomitava offese razziste durante un’amichevole con la Pro Patria, prima di smettere la maglia e lasciare il terreno di gioco. E qualche anno prima a Treviso andarono in campo una squadra di ragazzini con il viso dipinto di nero: il nigeriano Omolade, che giocava con i trevigiani, venne preso di mira sugli spalti per il colore della pelle. E allargando lo spettro qualcosa si è visto anche a Rio de Janeiro, sempre Olimpiadi, due anni fa, con Feyisa Lilesa, maratoneta etipe, in Brasile con la squadra dei rifugiati, secondo al traguardo, con il gesto delle mani incatenate. Ma non era un emulo di Josè Mourinho, che fece lo stesso gesto una manciata di anni precedenti, durante un’Inter-Sampdoria: “Se torno in Patria mi uccideranno” ha dichiarato Feyisa Lilesa dopo la sua protesta, strappando con un’immagine il velo del silenzio che avvolgeva la repressione della sua etnia, gli Oromo, da parte dei Tigrini al potere. Ma proprio nel cinquantenario di Smith e Carlos con pugni alzati in Messico per onorare la memoria di Martin Luther King negli Stati Uniti è come se fosse stato raccolto il testimone. Dai pugni alle ginocchia, dai simboli delle Black Panther con il capo inclinato in sfida al mondo ai campioni del football in ginocchio, durante l’esecuzione dell’inno nazionale americano, prima del via alle partite del football della National Football League. La vicenda, che ha ancora un seguito con atleti in protesta nella stagione da poco partita, ha avuto inizio oltre un anno addietro, con Colin Kaepernick, ex lanciatore dei San Francisco 49ers, che decise di protestare a modo suo contro la campagna di odio, violenza, sopraffazione esercitata dalla polizia americana sulla comunità afroamericana due primavere fa. Eric Garner, il ragazzo morto in seguito a una manovra proibita, condotta da un agente durante l’arresto, poi Michael Brown a Ferguson, Tamir Rice a Cleveland. Per loro, per altri, prima seduto, poi in ginocchio anziché mani al petto durante l’inno nazionale, una campagna che ha prodotto un flusso ininterrotto di condivisioni, di intere squadre di football in ginocchio, oppure in altri sport popolari come il basket, nonostante la guerra personale ingaggiata dal presidente americano Donald Trump contro gli atleti anti inno, da cacciare a pedate perché mancherebbero di rispetto ai militari americani caduti in guerra. Da Lebron James, il cestista più famoso al mondo che ha anche dato del buffone a Trump, stigmatizzando la sua politica razzista, denigratoria verso le minoranze, alle squadre vincenti nei rispettivi campionati nazionali che hanno via via respinto l’invito alla passerella alla Casa Bianca, una liturgia non scritta nello sport americano. Mentre ora Kaepernick, vittima anche lui della fama mediatica come Smith e Carlos, è ancora senza squadra, da due anni, messo da parte dal sistema, dalle squadre incitate da Trump a non concedergli un contratto, ma è testimoniale di una campagna promozionale della Nike e che ottiene anche una laurea a Harvard University per il contributo fornito alla cultura africana e afroamericana. Forse è lui l’erede di Smith e Carlos e di quei pugni contro la miseria umana.