Se tutta la ricerca di Jeremy Deller è indirizzata allo svelamento delle discrepanze del concetto di nazione, English Magic è il progetto dentro il quale si coagula la questione della coscienza nazionale inglese. Tanto più che English Magic è il congegno visuale con cui Deller circoscrive il Padiglione britannico alla 55/ma Mostra d’arte contemporanea di Venezia intorno alla nozione di «Englishness». La tensione principale dell’intera installazione non può che essere una narrazione idiosincratica della nazione, scavalcando l’enfasi retorica.
Il titolo stesso English Magic, così come viene esaminato da Hal Foster nel saggio in catalogo, condensa la deviante strategia storica che Deller persegue nel suo progetto. Se il termine magic è «l’abilità a influenzare il corso degli eventi attraverso l’uso del mistero o delle forze sovrannaturali», coniugato a english risulta come il campo in cui si estende la tradizione di stregoni, dai Druidi di Stonehenge fino al mago Merlino e Gandalf. L’adozione di quel titolo evoca dunque le qualità «mitiche» della cultura popolare e le sue capacità fascinatorie, specialmente in musica. È quasi un concept poiché concentra nella metafora del mago (riperimetrato nell’era contemporanea negativamente come truffatore) la capacità dissimulatoria di politici che hanno raggirato il corso della storia britannica a cui Deller, brillantemente, contrappone la funzione antagonista della cultura popolare. Ne risulta un paradigma anti-establishment, che manifesta la sua insofferenza allo stato delle cose. Il possente spessore di William Morris, David Bowie e di altre realtà antagoniste partecipative vengono contrapposte a quel «doppio demoniaco» rappresentato da figure come Tony Blair, il Principe Harry of Wales, il magnate Roman Abramovic. English Magic appare come una «mappa di significato» all’interno della quale viene declinata la complessità della storia. Per fare ciò, il sovversivo Deller si avvale di una polisemia spiazzante in cui pittura murale, fotografia, scultura, disegno, object trouvé e musica si amalgamano tra loro in una scansione cronologica che affabula il passato e prefigura il futuro, in una dimensione visionaria e fantastica.
Tutto ha inizio con The Small Faces, un’ampia selezione di asce a mano di epoca neolitica risalenti a circa quattromila anni fa, rinvenute lungo la valle del Tamigi i cui reperti provengono dal museo di Londra. Bevan Tried to Change the Nation è l’installazione fotografica che raccorda le tappe del tour di David Bowie ai troubles nord-irlandesi (Bloody Sunday) che appaiono come i collanti del paradigma delleriano, avvitato ai movimenti di massa politici e musicali, gli stessi che precipitano in The Battle of Orgreave e Acid Brass.
Nel segmento successivo You Have the Watches, We Have the Times, c’è un cambio di scena che chiama in causa il sospetto suicidio dell’ispettore Onu David Kelly, che aveva subito fortissime pressioni da parte della stampa e del governo britannico per un servizio in cui aveva messo in dubbio la veridicità di un rapporto ufficiale riguardante le armi di sterminio di Saddam Hussein. L’evocazione delle precise responsabilità con cui il governo britannico, nella persona del premier Tony Blair, ha esercitato la sua egemonia politica, manifesta quanto Deller sia implicato in una sorta di spietata disamina evocativa dei fatti. Un’analisi che si riallaccia a It Is What It Is in cui la pregiudiziale dell’appoggio militare agli Stati Uniti nella seconda Guerra del Golfo per mano di Blair è il postulato critico dell’opera. In You Have the Watches, We Have the Times i disegni sono realizzati da detenuti nelle carceri del Regno Unito, molti dei quali appartengono a ex-soldati che hanno prestato servizio in Iraq e Afghanistan.
Un altro segmento è ripercorso da A Good Day for Cyclists con la raffigurazione potente di un’albanella reale che afferra fra gli artigli una Range Rover rossa e che rievoca l’abbattimento di una coppia di esse, specie protetta in Gran Bretagna, mentre sorvolavano la Sandringham Estate nel 2007. Gli unici a sparare quel giorno furono il principe Harry e il suo amico William van Cutsem. Il caso fu archiviato dalla polizia sbrigativamente. L’interpretazione sarcastica con cui l’artista stigmatizza l’accaduto nasce dalla constatazione dell’impunità del potere e dalla sua capacità nel manipolare la verità. E dunque Harry è l’ennesimo infingardo mago che attraversa la storia inglese. Il banner che Deller aveva fatto realizzare da Ed Hall con l’ironico invito Prince Harry Kills Me è stato soppresso poiché, secondo il British Council, poteva provocare attacchi alle truppe britanniche che ancora stazionano in Iraq e Afganistan… Il clou è rappresentato da We sit starving amidt our gold, il dipinto murale (realizzato da Stuart Sam Hughes) che parte dal 2011, quando lo yacht Luna di Roman Abramovic era ormeggiato lungo il molo dei Giardini di Castello, limitando il transito ai visitatori della passata Biennale.
L’arroganza del magnate russo fa infuriare William Morris, il designer socialista di epoca vittoriana che, benché morto, ritorna nelle vesti di antico Poseidone per scaraventare in mare lo yacht, legittimando una sorta di vendetta del socialismo ottocentesco nei confronti della moderna oligarchia russa. L’artista invita a una riflessione sull’autonomia dell’arte, ricordando quanto i magnati la adottino non certo per filantropismo, bensì per auto-legittimare il proprio status attraverso il suo capitale simbolico. Se la Biennale di Venezia sostanzialmente si è ritirata in una sorta di bunker di protezione in cui non filtrano le asperità sociali, Jeremy Deller pone al centro della questione dell’essere-al-mondo il conflitto sociale. Magnetico come sempre, Deller è il vero e unico mago che ha creato un incantesimo.