I Nei nove mesi di pandemia sull’università e sulla ricerca è calato il silenzio. Nel decreto «rilancio» il governo ha stanziato fondi una tantum per assumere 3331 ricercatori a tempo determinato che dovrebbero essere stabilizzati solo entro ottobre 2022. Ma questo è un debole argine davanti un’emergenza che vedrà 1700 docenti andare in pensione ogni anno. Dopo il maxi-taglio da un miliardo all’anno del governo Berlusconi nel 2008, da allora mai più recuperato, negli ultimi 10 anni l’università ha visto una costante diminuzione del personale docente (circa il 15%). Il personale tecnico e amministrativo è passato da 70 mila a 45 mila unità nonostante un incremento notevole dei servizi richiesti agli atenei.

IN UN’INTERVISTA a Il Manifesto del 21 ottobre il ministro dell’università Gaetano Manfredi ha annunciato l’uso dei fondi dal «Next Generation EU» per assumere 2 mila ricercatori all’anno. Degli oltre 21 miliardi di euro per «Istruzione e ricerca» quasi la metà andranno «dalla ricerca all’impresa». Non è un segnale incoraggiante. In questo mondodimenticato e incerto vivono i ricercatori precari che tengono in piedi gli atenei. In un recente rapporto sugli assegnisti di ricerca l’associazione dei dottorandi italiani (Adi) ha stimato che, in base ai dati del Cineca, solo il 6,3% di loro riuscirà a raggiungere una posizione meno precaria (il contratto da ricercatori di tipo «B»). Il restante 93,7%, sarà irrimediabilmente espulso dall’accademia. Consideriamo questa proporzione a partire dalla media degli ultimi quattro anni. I ricercatori di questa tipologia sono circa 860 ogni anno, gli assegnisti di ricerca circa 13.600 ogni anno. La maggioranza di questi ultimi non potrà continuare. È da questi dati che è possibile comprendere la gravità del ridimensionamento della ricerca.

LA PIATTAFORMA di discussione e mobilitazione nazionale «Unicovid» ha condotto una dettagliata analisi sulla condizione frammentata dei borsisti, dottorandi e docenti a contratto nel primo lockdown tra marzo e maggio. È un universo di lavoratori privi dei più basilari diritti come malattia, ferie e, in alcuni casi, anche di contribuzione pensionistica. Tra gli oltre 400 ricercatori precari che hanno partecipato al questionario online sono state registrate fino a nove tipologie contrattuali diverse. Dall’indagine è emersa la pluri-dimensionalità della vita precaria che non va ridotta alle questioni contrattuali perché riguarda anche le condizioni abitative, psicologiche e di genere. La maggioranza di chi ha partecipato alla ricerca è composta da ricercatrici che hanno raccontato di avere sostenuto un incremento del lavoro di cura durante il periodo di confinamento casalingo che ha portato alla riduzione del tempo dedicato al lavoro. La situazione non è molto cambiata nella seconda ondata del Covid e potrebbe avere forti implicazioni negative sulle loro già deboli prospettive di lavoro nell’università.

DALL’INDAGINE è emerso anche che pochi (13%) vivono da soli e il 20% vive con figli. Anche le variegate forme della convivenza hanno inciso sul lavoro. »La maggior parte del lavoro di cura e domestico è stato a carico delle donne, agli uomini è deputato il compito della spesa, come nell’Italia degli anni Cinquanta» si legge. Ciò ha influito sullo svolgimento materiale delle ricerche penalizzate dall’impossibilità dell’accesso alle biblioteche e laboratori. E non va dimenticata «la mannaia della valutazione che interviene insieme alle frequenti scadenze contrattuali». Fattori che hanno aggravato lo «stress e il burn out».

«L’UNIVERSITÀ è stata la prima ad essere chiusa, l’ultima ad essere riaperta per poi essere richiusa. Mentre si tengono chiuse le superiori, cinema e teatri manca un dibattito sul modo di tenerla aperta nonostante la pandemia. Non si può pensare che ricerca e insegnamento si facciano solo online – sostiene Luca Galantucci, ricercatore precario di fisica e attivista di Unicovid – Per i precari sono necessari congedi parentali non trasferibili dal padre alla madre, un reddito di base incondizionato che garantiscano la continuità di reddito in un lavoro dove la pausa tra un contratto e un altro può durare almeno quanto la durata di un contratto e una vera riforma di questo sistema prestazionale fondato sull’economia della promessa e i meccanismi feudali che penalizzano la libertà di ricerca e insegnamento»